"Il Signore parlò a Moshé sul monte Sinày Dicendogli così: 'Parla ai figli di Israel e di’ loro: “Quando sarete entrati nella terra che sto per darvi, la terra dovrà riposare un sabato in onore del Signore'…" (Vayikrà 25:1-2).
La mitzvà della shemittà, il riposo della terra per un anno intero ogni settimo anno, è la sola introdotta con la precisazione che essa fu data sul monte Sinày. Poiché sappiamo che tutta la Torà fu data in quel luogo, i maestri si interrogano sul motivo della citazione fatta solo in relazione alla shemittà. La grande importanza rivestita da questa mitzvà è evidenziata con estremo vigore da un brano successivo a quello citato, precisamente in Vayikrà 26, 24-35, in cui si prospetta l’esilio come punizione per gli anni sabbatici non osservati. Che cosa dà tanta importanza alla shemittà?
Ci sono due componenti unici in questa mitzvà. In primo luogo contiene un elemento di sacrificio personale, poiché richiede sia all’individuo sia alla nazione nel suo insieme di astenersi dal lavoro della terra e dal raccoglierne i frutti per un anno intero. Questo non implica solo il sacrificio di una parte del raccolto individuale: potrebbe causare un grave colpo per l’intera economia di una civiltà agricola. In secondo luogo c’è un elemento di bitachòn, sicurezza o fiducia, che induce ad affidarci completamente alla protezione Divina, assicurando che il sacrificio sarà più che compensato, poiché la benedizione di D-o farà sì che ci sia una sovrabbondanza di raccolto nel sesto anno, tale da essere sufficiente per tre anni (Vayikrà 25:21).
Shemittà in questo modo è il prototipo di ogni mitzvà che si presenta come un apparente sacrificio, ma offre la sicurezza che non si dovranno sopportare sofferenze obbedendo alle leggi Divine. La promessa di D-o fu mantenuta quando gli ebrei si insediarono nella terra e osservarono la mitzvà della shemittà. Ebbero la prova di non dover sopportare alcuna perdita permettendo alla terra di riposarsi e la loro economia non ne fu rovinata. Che cosa venne fatto di sbagliato poi che la shemittà fu violata? La Torà li aveva messi in guardia da quello che sarebbe capitato se avessero violato il comando. Come può qualcuno essere così folle da rischiare conseguenze tanto disastrose a causa di una trasgressione al volere Divino proprio nel momento in cui ha le prove materiali ed evidenti della benedizione che si avvera quando si ottempera a quello stesso comando?
Questo, purtroppo, è proprio alla natura umana. C’è spesso una urgenza di vedere se si può “scappare via”, fare uno strappo alla regola, fare un’eccezione, persino quando ogni logica, ogni pensiero razionale suggerisce altrimenti. Si riscontra di frequente questo fenomeno negli alcoolisti che ricadono nel vizio dopo un periodo di sobrietà. Il ritornello è familiare: «Quegli anni della mia vita in cui dominai il mio istinto furono i più felici. La mia vita familiare era idilliaca e avevo molto più denaro di prima. Ogni cosa andava per il verso giusto». Ma allora, perché tornare indietro? In realtà si pensa sempre che sia impossibile ricadere nel vizio, si pensa di avere acquisito, con l’esperienza fatta, la forza necessaria per riavvicinarsi con moderatezza a ciò di cui prima si era abusato, ritenendo ormai di avere i mezzi per mantenere la distanza giusta. Questo capita anche alle persone più intelligenti che, avendo sofferto a causa del loro vizio, ne sono uscite, per poi ricadervi pensando razionalmente di fare una semplice scappatella, ma in realtà spinte ancora una volta dall’inclinazione negativa, insita in ciascun uomo, che porta a cedere ai peggiori impulsi.
I nostri padri furono vittime proprio dello yetzer harà, l’istinto che spinge al male; sebbene avessero sperimentato materialmente le benedizioni Divine meritate per aver osservato il precetto della shemittà, pensarono che avrebbero avuto una rendita in più se avessero trattenuto l’abbondanza dovuta alla benedizione del sesto anno, mentre lavoravano la terra nel settimo. In realtà questo ragionamento non funzionò allora, come non è valido oggi per noi. La sicurezza Divina non è negoziabile. Solamente l’osservanza delle mitzvòt porta benedizioni, non può essere altrimenti; non è possibile ricavare alcun vantaggio trascurandole, anzi ciò che si riceve è solo un danno anche materiale. Questo effetto fu evidente e visibile nell’osservanza della shemittà e proprio per questo la mitzvà è usata come prototipo per tutti i precetti dati sul monte Sinay. Questo è il motivo della citazione specifica a proposito della quale i maestri si interrogano: indicare al popolo ebraico che tutto ciò che si è avverato in merito all’osservanza o meno della shemittà, è ugualmente valido per tutti i 613 precetti. Moshé confermò e rimarcò questo principio in termini generali nel suo ultimo messaggio ai figli di Israèl dicendo: "Guarda io ho posto oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male. Ciò che io ti comando oggi è di amare il Signore D-o tuo e di percorrere le sue vie e di osservare i suoi precetti, i suoi statuti e le sue leggi. Così tu vivrai e ti moltiplicherai e ti benedirà il Signore tuo D-o nel paese nel quale tu entri per possederlo. Ma se tu volgerai il tuo cuore e non ascolterai, ma ti farai trascinare a prostrarti ad altri dei prestando loro culto, io vi dichiaro oggi che andrete in perdizione; non prolungherete la vostra presenza sulla terra per la quale tu passi il Giordano per andare e possederla. Io chiamo a testimoni per voi oggi il cielo e la terra: io ho posto davanti a voi la vita e la morte, la benedizione e la maledizione, scegli la vita, onde viviate tu e la tua discendenza (Devarìm 30:15-19)."
(Tratto da Il Giubileo Rigenerazione della Terra e dell’Anima, Lulav Editrice).
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