Siamo nel mese di elùl che precede Rosh Hashanà e che nella tradizione si associa alla teshuvà (il pentimento). Questa, insieme con la tefillà (la preghiera) e la tzedaqà (la carità) rappresenta unno dei tre pilastri sui quali si basa la nostra vita religiosa durante le Grandi Feste e nei giorni che le precedono.

Le parole pentimento, preghiera e carità non danno, però l’esatto concetto racchiuso nei termini ebraici.

Di solito teshuvà si traduce come pentimento. Tuttavia la traduzione esatta di pentimento in ebraico è charatà e non teshuvà: i due termini indicano addirittura concetti quasi opposti. Infatti la charatà induce l’uomo a seguire nel suo comportamento un nuovo cammino. Egli si rammarica per le sue colpe e per le buone azioni che non ha compiuto e si propone di adottare un nuovo comportamento.

Teshuvà, invece, significa ritorno. L’ebreo è sostanzialmente buono e il suo più intimo desiderio è fare il bene. I suoi errori sono, perciò, dovuti in tutto o in parte, a circostanze di forza maggiore. La parola ebraica teshuvà esprime proprio questo: il ritorno dell’ebreo alle sue vere origini e radici, che d’ora in poi determinerà il suo comportamento.

La parola tefillà si traduce usualmente con preghiera. Tuttavia la traduzione ebraica esatta di questo termine è baqashà.

Anche queste due parole hanno significati divergenti.

Baqashà significa richiesta, supplica, mentre la parola tefillà esprime il concetto dell’attaccamento.

Dove la prima indica la supplica rivolta all’Onnipotente che provvede ai nostri bisogni, ma non sempre ha scopo rivolgere solo suppliche al Signore.

Tefillà sta a indicare il nostro attaccamento a D-o. Si esprime quindi con tale parola un concetto valido per tutti in ogni momento della vita. L’anima è legata e unita a D-o, tuttavia i legami con l’Onnipotente possono a volte allentarsi. Ci sono perciò nella giornata determinati momenti – quelli dedicati alla tefillà – in cui rinnoviamo e rafforziamo i nostri legami con D-o. Perciò, anche se l’uomo non manca di nulla di materiale, è pur sempre attuale il concetto della tefillà che esprime il desiderio di essere più vicino a D-o. Essa è il mezzo di rafforzare l’attaccamento al Signore.

Tzedaqà si traduce di solito con carità, ma la parola esatta in ebraico per indicare la carità è chèssed. Ancora una volta i due termini non si equivalgono, anzi sono antitetici.

Chessed pone l’accento sulla generosità del donatore. Tale espressione non implica che chi riceve il dono lo abbia meritato e nemmeno che vi sia un obbligo per il donatore di dare.

Il temine tzedaqà, invece, deriva dalla parola che significa giustizia. Usando tale espressione s’intende dire che la giustizia impone all’ebreo di dare; e ciò per due ragioni: la prima è che egli non dà del suo, ma solo di ciò che D-o gli ha affidato perché lo dia agli altri; la seconda implica che, per provvedere ai propri bisogni, tutti ci affidiamo all’Onnipotente – benché certamente D-o non debba nulla a nessuno: perciò l’uomo deve ripagare misura per misura e dare agli altri anche se nulla deve loro.

(Saggio liberamente tratto da un discorso del Rebbe di Lubavitch