In questa Parashà la Torà ci fa conoscere il volto nuovo di Avrahàm; l’Avrahàm post-milà.

Tutte le mitzvòt sono degli strumenti che legano l’ebreo al Creatore, e ogni mitzvà particolare esprime un’altro aspetto di questo legame.

La mitzvà della milà ha un significato specifico inerente ad essa, chiaramente, ma racchiude anche un aspetto più vasto poiché la milà è un patto (berìt) rappresentativo del messaggio dell’ebraismo in generale.

È un principio di base nell’ebraismo che la spiritualità non sia limitata alle sfere elevate e astratte dell’esistenza. I principi della Torà devono essere tangibili e evidenti nella vita e sul corpo dell’uomo.

In aggiunta, il nostro scopo è quello di rendere il mondo materiale sensibile e aperto al Divino. Questo avviene forse nel modo più convincente nella mitzvà di milà, nella quale la spiritualità associata ad una mitzvà diventa imprimata permanentemente nel corpo umano.

A questo punto possiamo capire perchè la Parashà si chiama “Vayerà”, ossia “D-o gli apparve [ad Avrahàm]”: gli eventi che leggiamo nella Parashà descrivono una nuova era nella vita di Avrahàm, un’era nella quale anche il suo corpo fisico diventa uno strumento del Divino attraverso il patto della milà.

Qual è la lezione che si può trarre da questo evento?
Come discendenti di Avrahàm, la presenza di D-o è sempre sentita e apparente nella nostra vita, cosa che trova riscontro anche nel gesto naturale di un bambino di baciare il Sefer o la Mezuzà.

Quando leggiamo nella Torà che D-o apparve ad Avrahàm, dobbiamo quindi essere coscienti del fatto che D-o si rivela anche a noi. L’unica differenza è che ad Avrahàm fu data la possiblità di vedere questa rivelazione con i propri occhi.

Ma come nipoti di Avrahàm non dovremmo essere soddisfatti da una presenza Divina nascosta. Ognuno può chiedere, “perché D-o si è rivelato ad Avrahàm e non a me?” Ed è la richiesta stessa che può diventare la base di un legame più profondo.

Basato sulle opere del Rebbe di Lubavitch, זי“ע