Perché esistiamo? Il Talmud stabilisce in modo semplice e succinto: “Sono stato creato per servire il mio Creatore”. Il mussàr, che si orienta verso insegnamenti morali, spiega che l’obiettivo della vita è quello di raffinare le nostre inclinazioni. Lo Zohar si pronuncia in questi termini: “D-o ci ha creati affinché le Sue creature lo conoscano”.
Il maestro della kabbalà, Rabbi Yitzchak Luria, insegna: “D-o è l’essenza del bene e la natura del bene è quella di produrre a sua volta altro bene. Ma questo non può essere ben distribuito se non c’è nessuno per riceverlo. Lo scopo della creazione del mondo consiste nell'esistenza di ricettacoli della Sua bontà”. La chassidut infine, si esprime così nel Tanya: “Fare di questo mondo una residenza per D-o”. È ovvio per tutti che D-o abita già in questo mondo, ma crearGli un posto significa elevare la materialità in spiritualità, ovvero, in altri termini, fare in modo che egli si senta a “casa Sua”.
La materia in sé è un prodotto di puro egocentrismo e l’uomo possiede questa predisposizione più di ogni altra creatura. Il problema dell’egocentrismo è che scompiglia la verità soggiacente, che la creazione non è fine a se stessa ma il prodotto del Creatore e un mezzo per Lui, quindi la missione dell’uomo è di trasformarla in un elemento spirituale. Ciò è possibile solo tramite le mitzvòt. Conciando della pelle per fabbricarne un paio di tefilìn, condividedo i nostri beni coi più bisognosi, usando il nostro intelletto per lo studio delle Sacre Scritture, la trasformazione diventa effettiva.
La frontiera dell’Io
Due sono le tappe per rendere la sfera terrestre una dimora Divina: la prima consiste nel conciare la pelle e fabbricarne i tefilìn, la seconda è mettere i tefilìn con la relativa benedizione e tefillà. A priori la seconda tappa sembrerebbe più importante, in realtà è la prima che permette la vera costruzione di un residenza per il Signore.
Come è noto, la Torà è di consueto molto parsimoniosa con le parole ma, per quanto riguarda le istruzioni inerenti al mishkàn (santuario del deserto), abbonda in dettagli che vengono addirittura ripetuti: ben tredici capitoli sono dedicati alle disposizioni per il montaggio del mishkàn, allorchè un solo capitolo è dedicato, per esempio, alla descrizione della Creazione del mondo e solo tre per la Rivelazione al Sinai. Il mishkàn è il prototipo dell’abitazione di Hashem nella dimensione materiale.
“Veassù li mishkàn veshachantì betochàm - che mi facciano un Santuario e Io residerò in essi”. In questo versetto, pilastro dell’ebraismo, Hashem usa il singolare per il mishkàn poi il plurale. Per chi? Per “essi”. “Essi” siamo noi, ogni “Io” dev'essere un santuario, un ricettacolo per D-o.
Hashem ha bisogno di un luogo sacro per vivere in noi, solo il bene può ospitarLo e, di conseguenza, Egli desidera innanzitutto che l’uomo progredisca verso il bene; dobbiamo quindi sormontare il nostro “Io” oltrepassando i limiti della fisicità alla quale siamo incatenati. La prima fase è questa, la seconda è la concretizzazione di un potenziale già pronto. Lo scopo di un ricettacolo è che sia colmo.
Il santuario fu costruito per accogliere la presenza Divina. Ma è la costruzione in sé che costitutisce la più grande sfida.
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