Grazie allo Shabbàt il popolo ebraico è rimasto distinto dagli altri popoli, così come tale giorno è distinto dal resto della settimana. Non è un giorno totalmente spirituale, bensì rappresenta la perfetta fusione fra spirituale e materiale.
Nei dieci comandamenti troviamo scritto: per sei giorni farai tutta la tua opera, ma il settimo giorno… non farai opera alcuna. I saggi si chiedono come sia possibile completare "tutta la propria opera". È necessario chiarire cosa si intenda per "opera" e quali siano le opere proibite. Tutto dipende da come si accoglie il sabato: l'uomo non deve vivere questa giornata semplicemente come un intermezzo per recuperare le energie in vista della ripresa dell'attività, ma come un momento a sé stante, proprio come se tutta la sua opera fosse davvero conclusa.
Secondo la Torà il lavoro è fondamentale in quanto attraverso di esso l'uomo collabora alla creazione divina. Il sabato invece assolve a una funzione equilibratrice, che fa uscire l'uomo da un'esistenza proiettata esclusivamente nel mondo della creatività fisica e lo inserisce in quello della creatività spirituale e sociale.
Secondo la terminologia dei maestri (Talmùd Betzà 16a), all'entrata del sabato viene riversata nell'uomo un'anima supplementare che, per potersi svelare pienamente, ha bisogno di essere accolta sia spiritualmente che materialmente. In questa attenzione per la duplicità della vita si manifesta uno dei fondamenti dell'ebraismo che tende a elevare il mondo materiale, facendogli assorbire una parte della Qedushà, della santità, del mondo superiore.
La forza redentrice dello Shabbàt, inoltre, non viene mai meno: se Israèl avesse la forza di osservare due sabati consecutivi, che rappresentano un minimo di stabilità e continuità, nessuna forma di schiavitù esteriore potrebbe prevalere su chi ha così raggiunto una propria libertà interiore.
La rappresentazione dello Shabbàt come sposa e regina, così frequente nei canti dedicati al sabato e ampliamente utilizzata dalla mistica ebraica della scuola di Safed, ha le sue radici nel Talmùd. Ne è un esempio l'inno Lekhà Dodì con cui si accoglie il sabato in tutte le sinagoghe e che fu scritto da rabbi Shelomò Alkabetz, discepolo di rabbi Yitzkhàk Luria, l'Ari Zal.
Centro focale della vita ebraica è sempre la casa, una realtà questa che è particolarmente evidente di Shabbàt quando i canti, gli usi e le mitzvòt sono diversi da quelli di altri giorni.
È infatti entro le mura domestiche che si cucina per Shabbàt, si prepara un tavolo ben addobbato e si indossano gli abiti migliori; la famiglia si riunisce intorno al tavolo in cui è stata posata una doppia porzione di khallà che ci ricorda la doppia porzione di manna che cadeva dal cielo il venerdì in onore dei nostri antenati nel deserto.
Tale giorno è caratterizzato dal Qiddùsh, la cui recitazione fa parte del precetto positivo del zakhòr et yom hashabbàt leqadeshò, ossia "ricorda il giorno del sabato per santificarlo" (dieci comandamenti) e la cui origine secondo l'opinione prevalente, è rabbinica. Si inizia il Qiddùsh dopo aver gettato uno sguardo alle candele di Shabbàt, la cui accensione rappresenta un altro rito significativo. Attraverso il Qiddùsh l'uomo afferma esplicitamente che è il Signore il vero padrone del creato e riconosce i limiti entro cui deve svolgersi la sua partecipazione all'opera creatrice di Dio. In esso affermiamo che il sabato è "in ricordo dell'opera dell'inizio" e "in ricordo dell'uscita dall'Egitto".