"C he D-o sia con te!” Con queste parole mi separai da mio padre uscendo dal rifugio, diretta nelle tenebre e nel gelo della notte. Erano le quattro del mattino e il buio era fitto.
Avvolta in un grande scialle, carica con un peso eccessivo per una ragazza di quattordici anni, dieci chili di carne kasher nascosti in un abito speciale, pieno di tasche interne: un pacco di carne in ogni tasca.
Questa carne era quella ottenuta dalla shechità di mio padre, Rav Yechiel Shterenfeld, che era lo shochet della città polacca di Niska. In quei giorni i tedeschi avevano proibito la shechità, con la scusa che procurava sofferenza all’animale. Un ebreo che veniva scoperto a compiere la shechità, sarebbe morto insieme all’animale…
Non avendo scelta, gli ebrei corsero il rischio e in orari inconsueti e in posti nascosti mettevano in pratica la macellazione rituale. Mio padre aveva un rifugio dove si nascondeva per fare la shechità durante a tarda notte. Nella stessa notte tagliava e preparava l’animale in modo che poi io potessi andare a distribuirla nelle case ebraiche prima dello spuntare dell’alba.
Il mio ruolo era assai pericoloso, poiché la distribuzione la dovevo fare in diverse abitazioni, ma, vista la situazione, non c’era alternativa.
A volte la distribuzione mi impegnava diverse ore, poiché gli ordini di carne arrivavano da diverse parti della città: cercavo di fare il più presto possibile in modo da non essere vista dai passanti.
Quella notte, di cui vi ho cominciato a raccontare, era gelida in modo particolare. I miei passi erano frettolosi nella neve bianca e stavo sempre accostata ai muri delle case per non dare troppo nell’occhio. Il mio cuore batteva così forte che mi sembrava quasi che tutti potessero sentire i suoi battiti nel silenzio della notte. Le mie labbra pronunciavano preghiere un po’ simili a quelle da dirsi durante il viaggio: ”che Tu mi faccia andare in pace e tornare in pace, e che mi salvi dai palmi di ogni nemico e ladro e dagli animali feroci sulla strada”…
Le paure che nutrivo, riuscivo a sopraffarle grazie al fatto che percepivo l’importanza della mia missione: fornire di carne kasher i miei fratelli ebrei.
Dopo un’ora di dura camminata, finalmente intravidi le prime luci della città.
“Passerò prima dalla signora Rabinovitch”, pensai dentro di me, “che abita al terzo piano di uno dei primi palazzi della città e ha ordinato tre chili di carne”. Nellostesso palazzo, c’era una vicina che ne aveva ordinati due. Almeno mi sarei liberata subito di cinque chili di peso. Questi pensieri mi avevano dato la forza per accelerare i miei passi.
All’improvviso il sangue mi gelò nelle vene. Vidi un cane correre verso di me e, abbaiando, saltarmi addosso annusandomi i vestiti. Probabilmente il cane fu attratto dall’odore forte della carne che mi portavo addosso e non poteva fare a meno di un pasto così invitante… Tirò fuori la lunga lingua e mostrò i suoi denti aguzzi.
Ero paralizzata. Ero praticamente “avvolta” nella carne ed ero certa che il cane avrebbe mangiato, assieme ai pezzi di carne che portavo, anche pezzi della mia carne, senza distinzione tra una e l’altra.
Per un attimo il mio sguardo incrociò quello minaccioso del cane. Mentre i miei occhi trasmettevano rassegnazione e preghiera, gli occhi del cane brillavano dalla sfrenata voglia di sbranare il ricco pasto che stava per iniziare. Il mio corpo è scossa dai brividi ogni volta che ricordo quel momento. Nella mia testa continuavo ad implorare D-o per un miracolo…
Non so quanto tempo siamo rimasti lì, uno di fronte all’altro, probabilmente furono pochi secondi che però mi sembrarono molto lunghi. All’improvviso vidi un camion militare piena di soldati tedeschi.
“Ecco la mia fine”, dissi dentro di me, “se non mi sbrana il cane, lo faranno i tedeschi”.
Proprio in quel momento di rassegnazione, avvenne il miracolo. Uno dei soldati fischiò al cane enorme, che probabilmente apparteneva a quel soldato o a uno dei suoi compagni. Il cane si dimostrò talmente fedele e addestrato, che fece a meno del suo ghiotto pasto, lanciandomi un ultimo sguardo e lanciandosi verso il soldato che stava sul camion. Gli altri non fecero caso a me.
Con le gambe tremanti entrai nel palazzo, salii al terzo piano e bussai all’uscio della signora Rabinovitch. Quando aprì la porta, crollai su una sedia e scoppiai a piangere. La signora portò subito un tè caldo e mi fece sdraiare su un letto per riposarmi. Subito prese i pacchi di carne con il foglio degli indirizzi e andò a finire il giro delle consegne della carne kasher al mio posto. Dopo un po’ tornò e mi consegnò i soldi della carne che aveva ricevuto dai clienti.
Quando tornai a casa e misi sul tavolo i soldi, non dissi nulla ai miei di ciò che era accaduto in quella notte. Non volli aggiungere dolore ai loro dolori che già erano tanti. Continuai a svolgere la mia missione importante di fornire carne kasher alle case ebraiche finché fu possibile.
Da un racconto di Shoshana Egozi, tratto da Sichat Hashavua n. 713
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