Sembra incredibile ma anche nei campi di concentramento di Aushwitz e Dachau, e sotto il tiro delle SS Eínzatzgruppen (unità mobili speciali impegnate nello sterminio egli ebrei) nei ghetti di Kovno e Varsavia, ebrei credenti indagavano attraverso le proprie guide religiose su cosa l'Halachà (legge ebraica) richiedesse da loro.
Il seguente è un toccante episodio descritto da Rabbi Zvi Hirsch Meisels nell'introduzione del suo volume di domande e risposte halachiche “Mekadeshei Hashem”.
Rabbi Meisels era il capo di una distinta famiglia chassidica di rabbini ed era il Rav della città di Veitzen in Ungheria. Prima di essere trasportato ad Auschwitz aveva già ottenuto una considerevole reputazione quale dotto dell'Halachà ed era l'autore di un libro ad esso inerente. Dopo la liberazione fu nominato rabbino capo di Bergen Belsen e del settore britannico, e fu elemento chiave nel chiarificare la visione halahica riguardo il permesso di risposarsi a coloro i cui sposi erano stati uccisi nell'Olocausto.
Egli racconta degli eventi che ebbero luogo ad Auschwitz la sera di Rosh HaShanà nel 1944. Il comandante nazista di Auschwitz aveva stabilito di mantenere in vita solo quei ragazzi dell'età compresa fra i quattordici e i diciotto anni che erano abbastanza forti per lavorare. Gli altri sarebbero stati inviati al forno crematorio. Nel grande campo centrale dietro i casermoni, erano riuniti qualcosa come milleseicento ragazzi che fino ad allora erano riusciti a scampare alle selektion. Il comandante ordinò che fosse piantato per terra un bastone verticale con una sbarra orizzontale posta ad un'altezza determinata. Coloro che avessero raggiunto in altezza la sbarra orizzontale sarebbero stati inviati al lavoro. Quelli che non erano sufficientemente alti sarebbero stati distrutti. Alcuni giovani, avendo capito la situazione, cercarono di allungarsi sulle punta dei piedi per raggiungere la sbarra, e furono picchiati a morte sul momento. Alla fine della selezione, i quattrocento ragazzi che non avevano superato il test furono imprigionati in celle speciali sotto la sorveglianza dei kapò ebrei.
(Un kapò era un prigioniero con l'affidamento di un gruppo di internati nel campo di concentramento. I kapò venivano nominati dalle SS perchè eseguissero i loro ordini ed assicurassero assoluto controllo sui prigionieri. Erano inizialmente scelti dalle file dei prigionieri criminali tedeschi. Gli ebrei venivano nominati dopo solo nei campi dove i prigionieri erano principalmente ebrei. La maggioranza di loro era crudele e repressiva ed imitava la condotta delle SS. Alcuni aiutarono i loro compagni prigionieri).
Non avrebbero ricevuto più cibo e bevande, e come era stato inteso, sarebbero stati inviati nei forni crematori la notte seguente. Generalmente, i crematorí ad Aushwitz operavano solo durante le ore notturne.
La mattina seguente, il primo giorno di Rosh HaShanà, padri e altri parenti che avevano inteso la sorte dei loro ragazzi, cercarono di persuadere i kapò a rilasciarli. I kapò risposero che era stato fatto un conteggio esatto dei ragazzi ed avrebbero pagato con le proprie vite se anche uno di loro fosse mancato. Alcuni dei parenti conservavano ancora valori nascosti sul corpo sotto le vesti, e gli offrirono ai kapò in cambio delle vite dei figli. Anche chi non aveva assolutamente nulla con cui redimere i propri figli, in qualche modo cercò di ottenere qualcosa da altri prigionieri che desideravano aiutare. Tutto quel giorno di Rosh HaShanà gli Ebrei si ammassavano fuori delle celle dei casermoni, per contrattare con i kapò. Soccombendo all'ingordigia, i Kapò accordarono di rilasciare alcuni prigionieri. Ma avvertirono che, per ogni prigioniero rilsciato avrebbero dovuto acchiappare altri ragazzi ebrei che erano riusciti a sfuggire alla selektion, in modo che il conto sarebbe stato completo quando gli internati sarebbero stati condotti al crematorio.
Nonostante sapessero che le vite dei loro figli sarebbero state risparmiate solo a prezzo di altre, i padri fecero qualunque trattativa pur di ottenere la salvezza dei propri figli. Tutte le contrattazioni avvennero sotto gli occhi degli internati. Le guardie SS, scrive Rabbi Meisels, generalmente rimasero alla periferia di Auschwitz e permisero ai kapò di mantenere il controllo dei casermoni interni. Mentre osservava questo pazzesco trafficare con le vite umane, Rabbi Meisels fu avvicinato da un ebreo di Oberland che disse: “Rabbino, il mio unico figlio è in quella cella. Ho soldi a sufficienza per riscattarlo. Ma so per certo che se sarà rilasciato, i kapò ne prenderanno un altro che sarà ucciso al suo posto. Così Rabbino, le pongo una questione che richiede una risposta immediata e che lei imetta un giudizio secondo la Torà. Posso salvare la sua vita a prezzo di un altro? Qualunque cosa deciderà, obbedirò”.
Rabbi Meisels replicò: “Mio amato figlio: come posso determinare l'Halachà per una tale grave questione in queste condizioni? Anche quando possedevamo il Tempio Sacro, una questione capitale come questa richiedeva la decisione di un Sanhedrin. Qui sono ad Auschwitz, senza nessun libro di Halachà, senza altri rabbini da poter consultare e senza la necessaria chiarezza di mente per via di queste terribili circostanze”. Rabbi Meisels ragionò che se i kapò avessero prima rilasciato il ragazzo riscattato e poi catturato un altro in sua vece, l'Halachà avrebbe possibilmente permesso al padre di redimere il proprio figlio. Questo perché i kapò, che dopotutto, erano ebrei, per quanto degradati e corrotti, avrebbero forse potuto in qualche modo cedere dopo il rilascio del primo ragazzo senza tentare di prenderne un altro. Dove non c'è assoluta certezza che la salvezza della vita di uno, può costarne un'altra l'Halachà potrebbe non vietare il tentato riscatto. Ma i kapò impauriti dalle SS che sarebbero potuti sopragguingere in qualunque momento e ritenerli responsabili del conto completo avrebbero certamente cercato un'altra vittima prima ancora di rilasciare uno dei ragazzi. Così, incapace di dare un permesso halachico al padre e non volendo negarglielo, Rabbi Meisels continuò ad implorare l'ebreo di Oberland di non farli questa domanda.
Ma il padre stravolto, rifiutò di accettare le evasioni di Rabbi Meisels e disse: “Rabbino, deve darmi una risposta definitiva mentre c'è ancora tempo per salvare la vita di mio figlio”. Rabbi Meísels replicò:
“Mio caro e amato ebreo, ti prego, desisti dal pormi questa questione. Non ti posso dare nessun tipo di risposta senza consultare le fonti, specialmente in queste terribili e paurose circostanze”. Il padre rispose: “Rabbino, questo vuol dire che non può trovare un heter permesso - per me, per riscattare il mio unico figlio. Così sia. Accetto questo giudizio con amore”. Il rabbino continuò ad implorare l'uomo di non affidarsi a lui. “Amato ebreo non ho detto che non puoi riscattare tuo figlio. Non posso dire
né sì né no. Fai come desideri, come se non mi avessi chiesto niente”. Dopo molte suppliche il padre disse finalmente: “Rabbino ho fatto ciò che la Torà mi richiede. Ho
chiesto una she'elà (domanda halachica) ad un rabbino. Non c'è un altro rabbino qui. E se non può dirmi che posso riscattare mio figlio è segno che nella sua mente, non è
certo che l'Halachà lo permetta. Poiché se lei era certo che è permesso, me le avrebbe senz'altro detto. Così per me la sua evasione equivale a un pesak din - netta decisione
che l'Halahà mi proibisce di fare ciò. Così il mio unico figlio perderà la vita secondo la Torà e l'Halachà. Accetto il decreto di D-o con amore e gioia. Non farò nulla per riscattarlo a prezzo di un'altra vita ínnocente, perché così comanda la Torà”.
Nonostante le implorazioni del rabbino, il padre persistette nella sua decisione. Tutto quel giorno di Rosh HaShanà, scrive Rabbi Meisels, l'ebreo di Oberland andò mormorando gioiosamente che aveva il merito di dare la vita del suo unico figlio in obbedienza alla volontà del Creatore e della sua Torà. Pregò che quest'atto potesse essere accettato alla vista dell'Onnipotente come quando Abramo si sottopose alla richiesta del sacrificio di Isacco, del quale ci ricordiamo durante le letture e le preghiere di Rosh HaShanà.
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