Rav Steinsaltz, la sua traduzione del Talmud è giustamente considerata un'opera di grande importanza. In che modo ha deciso di intraprenderla?
Rav S: A dire il vero questa iniziativa non è partita solo da me. Ho insegnato per molti anni il Talmud e molte volte i miei allievi mi chiedevano di raccogliere i miei corsi in una pubblicazione, perché sarebbe stato utile per loro. Questa richiesta è stata all'origine del mio tentativo. Questo tentativo ha poi preso forma anche in rapporto alle personalità estremamente diverse dei miei studenti e al loro rapporto con la Torà.
Ho cominciato nel 1965. Ci sono voluti due anni perché la prima parte comparisse, tanto le difficoltà erano grandi. Nessuno, per esempio, sapeva come stampare un tal libro. Ancora oggi i problemi tecnici posti da una stampa così complessa piena di testi diversi che si intersecano l'un l'altro crea grosse difficoltà. Del resto quando apparve il primo volume pochi pensavano che ne sarebbe stato pubblicato un secondo. Grazie a D-o c'è stato ed anche i seguenti e ora le cose procedono più rapidamente.
Oggi questa cadenza la soddisfa?
Rav S: Vorrei andare ancora più veloce, ma mi è impossibile a meno di abbandonare tutte le mie attività. È anche vero che oggi sono assecondato da tutta un'èquipe. Ciò non impedisce che io scriva personalmente ogni parola del commentario. Incappo dunque in un limite fisico. Il ritmo ottimale al quale siamo pervenuti è due volumi all'anno.
Si dice che in Russia i Guardiani della Fiamma, quelli che pur contro tutti i divieti continuano a studiare la Torà, lo fanno sulle sue opere. Può parlarcene?
Rav S: Ricordo una cosa che mi ha profondamente commosso. Una sera qualcuno bussò alla mia porta. Era una ragazza che rientrava da Mosca. Era venuta per trasmettermi i ringraziamenti dei miei allievi di laggiù.
Due anni prima mi trovavo a New York presso il Rebbe di Lubavitch. Aspettavo di fare minchà quando il Rebbe mi scorse e mi fece un segno. Mi parlò per un lungo momento ed in particolare mi trasmise un saluto dalla Russia. Mi disse che molti studenti di là lavoravano sulle mie Ghemaròt.
Ci sono delle altre storie molto commoventi. Un giorno fui interpellato da un membro del Comitato Olimpico Israeliano che rientrava da Mosca. Anche lui voleva trasmettermi una testimonianza da quel paese. Si era impegnato a far pervenire a un ebreo che aveva potuto prendere i contatti con lui, la Ghemarà di Steinsaltz.
Esistono oggi a Mosca due grandi gruppi di ebrei che si organizzano per studiare la Torà. In uno si studia il trattato Berachòt e nell'altro Sanhedrin. In entrambi i casi si parte dalle opere che io ho pubblicato.
Questa è per me una vera ricompensa.
I suoi allievi le fanno delle domande?
Rav S: Mi succede di avere dei contatti telefonici con loro ma è molto difficile. Comunque vorrei dire che i più grandi incoraggiamenti li ho avuti da laggiù.
Un giorno un ebreo è venuto a trovarmi e mi ha detto che un suo amico era stato esiliato in Mongolia. Durante quei lunghi mesi sua moglie aveva tentato tutte le strade per ottenere il permesso per andarlo a trovare. Alla fine ci riuscì, le permisero di incontrare il marito per mezz’ora. Attraversò l'intero continente per vedere il marito e lo trovò molto affaticato, dimagrito e malato, ma una delle prime cose che lui le disse fu che voleva trovare il modo di scrivermi. Allora pensate un po', qualcuno che si trova laggiù, che incontra sua moglie per mezz'ora e che si preoccupa di un contatto con me, non c'è più grande incoraggiamento al mondo.
La sua impresa è estremamente difficile. Si può dire che dopo Rashì non se ne trovino altri esempi. Cosa ne pensano i suoi lettori.
Rav S: Io non so cosa succede ai miei libri. Quello che so è che di ciascuno ne sono stati pubblicati 40.000 esemplari. Penso che due terzi restino in Israele.
La personalità di quelli che possiedono le mie opere è estremamente differenziata. Per alcuni le mie Ghemaròt sono la sola opera ebraica che posseggono. Altri, come gli ebrei ortodossi possiedono grandi biblioteche. È il caso di una delle più grandi autorità rabbiniche d'Israele che un giorno mi ha detto che usava le mie opere.
Le lettere che ricevo arrivano dalle persone più diverse, da quella del ragazzino che studia con suo padre a quella dei Rabbanim, ma per me sono tutte ugualmente preziose. E lo stesso è fuori d'Israele.
La cadenza di due opere all'anno è grande. Inoltre lei ha altre occupazioni. Come fa?
Rav S: Uno dei miei avi fu il Rabbi di Warka. Prima di diventare Rabbi era stato contabile. Un giorno pose questa domanda ad un suo collega: “Si può rubare un po'?” Qualche giorno più tardi notò che il collega in questione aveva effettivamente cominciato a rubare. Ne fu scandalizzato e lo rimproverò. L'altro rispose: “Ma sei stato tu stesso che hai posto il quesito l'altro giorno!” Allora il mio avo spiegò: “quello che volevo dire era; si può rubare un po' di tempo per sedersi e studiare la Torà!”
È la mia risposta alla vostra domanda. Uno ruba un po' qui e un po' là, dal suo sonno, dalla sua vita familiare, dei piccoli furti.
E il fatto di tradurre i suoi libri in altre lingue?
Rav S: Sì certo, ci stiamo apprestando alla traduzione inglese. Forse sul piano economico è un progetto completamente folle. Una prima valutazione situa il costo di ogni opera intorno ai 300.000 dollari.
Il suo lavoro è senza dubbio legato ad un grande fenomeno dei nostri tempi: il ritorno alla Torà. Come considera questo fenomeno?
Rav S: Bisogna soprattutto cercare l'origine di questo fenomeno nel crollo delle illusioni e degli ideali che per tanto tempo hanno attirato tanti ebrei. Tutto ciò inoltre è da collegarsi ad una crisi più generale legata al tipo di rapporti che offrono attualmente le nostre società avanzate.
Questo insieme di cause costituisce quello che io chiamo la rottura di base. Ma allo stesso tempo si è prodotto un risveglio venuto dall'alto. Questo secondo livello è direttamente legato all'azione concreta di Chabad, a questo immenso movimento di incontro fra ebrei che il Rebbe ha scatenato. C'è in questa azione qualcosa di immediatamente tangibile che non è solo una percezione. Vi faccio un esempio. Nel 1970 andai a trovare il Rebbe. Al mio ritorno mi trovai seduto di fianco al grande umorista israeliano Ephraim Kishon. I chassidim, come d'abitudine, proposero ai viaggiatori di mettere i tefillìn, ed Ephraim rifiutò. Qualcuno gli si sedette accanto e cominciò a discutere con lui, alla fine lui accettò e dal momento che mise i tefillìn si trasformò completamente, al punto di diventare un uomo nuovo, entusiasta di avere fatto una mitzvà. Questa è la forza profonda della Campagna per le mitzvòt che il Rebbe ha lanciato, una forza che può trascendere la logica.
Mi viene in mente un altro esempio, quello di un uomo che era diventato muto da ormai due mesi a causa di una lunga malattia. A questo uomo si propose di mettere i tefillìn e lui ritrovò la voce per poter dire la benedizione.
Queste sono le più belle risposte a chi dice che non serve a nulla avvicinarsi ad un ebreo e proporgli di mettere i tefillìn. Le mitzvòt indicano una strada, aprono agli ebrei una porta, quella della Torà.
Alcuni dicono che la via per ritornare alla Torà sia lo studio della Ghemarà. Altri, al contrario, affermano che chi si dedica esclusivamente a questi studi manca di freschezza e di entusiasmo, sfiora soltanto quel piacere profondo che invece si prova nello studio della chassidut. Lei cosa ne pensa?
Rav S: Ogni uomo ha la sua sensibilità. I primi sono più portati per la logica formale. I secondi, e io credo che siano i più numerosi, aspirano ad arrivare alle radici della Torà. Ma io penso che per ognuno entrambi gli aspetti siano in ogni caso necessari e che comunque la parte profonda ed esoterica della Torà sia vitale. Lo studio delle chassidut limita l'orgoglio che nasce dallo scoprire degli aspetti nascosti della Torà. Un antidoto al chametz, al lievito che è in noi.
Vuol dire che questo movimento di Teshuvà, di ritorno, dovrebbe comprendere anche i religiosi?
Rav S: Ho già avuto occasione, molte volte di sottolineare l'importanza dei movimenti di Teshuvà che sono scaturiti dopo la Guerra dei Sei Giorni e di Kippùr. Questi due momenti, sotto questo punto di vista sono stati molto favorevoli.
La sola classe che non ne è stata toccata è quella degli ebrei religiosi. Se anche quella lo fosse stata allora forse la Gheulà, la liberazione vera, sarebbe stata possibile.
La Teshuvà in ogni caso deve essere permanente, deve portare ad un cambiamento profondo di se stessi e questo vale anche per chi è già un ebreo religioso.
Quale soluzione prevede?
Rav S: Bisogna domandarsi: cosa vogliono da me coloro che mi sono vicini e che non sono religiosi? Vogliono vedere in me, che lo sono, un illuminato? Vogliono vedere in me risplendere la luce della Torà?
L'esperienza mi insegna che anche gli ebrei più lontani dalla Torà hanno una relazione ambigua, contraddittoria con gli ebrei religiosi. Da una parte odiano i religiosi ma spesso questo odio è l'espressione di una aspettativa, di un sogno di speranza.
Questo spiega come mai tanti ebrei, che provengono dai più disparati orizzonti, siano attirati dal Rebbe. Si rendono conto, comunque, di trovarsi davanti a un uomo che è la verità.
Naturalmente non si può domandare ad ogni rabbino di comunità di essere allo stesso livello. In ogni caso questa forza derivante dalla verità dovrebbe apparire di più in ognuno di noi.
A proposito del Rebbe, si nota che molta gente semplice assiste, spesso per ore ed ore ai suoi Farbrenghen (riunioni chassidiche) e ascolta con la stessa attenzione dei grandi rabbanim anche senza capire i discorsi così profondi dei Rebbe. Cosa ne pensa?
Rav S: Ci sono delle cose che anche un ebreo semplice può capire, per esempio che il Rebbe sente per lui un amore immenso. Secondo me il Rebbe, in questa nostra epoca che precede immediatamente la venuta di Mashiach, dà un'enorme importanza a quello che può realizzare un ebreo. Da parte sua questa persona comprende quest'amore, lo riflette, lo rinvia agli altri attraverso l'amore che lui stesso porta per il Rebbe. Dirò di più, il Rebbe, anche quando incontra il soggetto più difficile fa uno sforzo per formulare il suo pensiero in modo che sia il più possibile comprensibile. La gente semplice che ascolta ha l'impressione che dall'alto una mano venga loro tesa e a loro volta essi tendono la loro mano.
Nelle sue conferenze lei ha spesso affrontato il problema Mihu Yehudi (Chi è ebreo?) e ha anche sottolineato l'importanza che il Rebbe dà a questa questione. Me ne vuole parlare?
Rav S: Questo è un argomento essenziale. Ma vorrei dire prima di tutto, e nessuno lo può contestare, che nessuno può, meglio del capo spirituale della nostra generazione, il Rebbe, prevedere in modo così sincero e disinteressato l'avvenire del nostro Popolo. La mia opinione su questo argomento è che il Rebbe conduce su questo terreno un'azione essenziale. Ed è per questo che l'opposizione è tanto forte.
Non c'è che una legge che fonda in modo assoluto la specificità di Israele: la legge del ritorno legata alla definizione di Chi è ebreo? Ed è per questo che il Rebbe si accanisce perché sia inserita in questa espressione la clausola secondo la legge. In questo modo vuole ricordare la specificità assoluta del Popolo ebreo e dello Stato di Israele.
A partire dal momento in cui si tocca questa specificità, l'edificio dei mondo e dei mondi spirituali superiori è messo in moto. La posta in gioco diventa così importante che l'antagonismo degli antireligiosi si fa sempre più feroce. Infatti assistiamo ad una guerra incredibile tra la santità e l'impurità, le forze dei male. Immaginatevi per un istante che lo Stato d'Israele decida di mettere una croce nel suo emblema o sulla sua bandiera. Questo causerebbe, senza ombra di dubbio, una rivoluzione. È all'interno di questa ottica che bisogna considerare il problema di Mihu Yehudi? Per ciò che riguarda i territori occupati, il Rebbe ci ha dato prova dello stesso accanimento, perché il problema di fondo è identico. Ma io penso che questa non sia l'occasione per parlarne...
Grazie, Rav Steinsaltz.
Rav Adin Even Israel Steinsaltz è rabbino, professore, ricercatore, filosofo e Direttore dell'Istituto Israeliano per la Ricerca e le Pubblicazioni Talmudiche.
Nato a Gerusalemme nel 1937, Rav A. Steinsaltz ha seguito gli studi di matematica all'Università di Gerusalemme. Tiene conferenze in ogni parte del mondo e tra l'altro ha anche dato lezioni private al defunto Presidente d'Israele Zalman Shazar. Autore prolifico, ha già pubblicato numerose opere in ebraico, di cui alcune sono state tradotte in inglese, come: Il Talmud Essenziale, La rosa dai tredici petali, la Haggadah, ecc...
Tiene anche dei corsi di Tanya alla radio ed è spesso presente nei programmi della televisione israeliana. Infine è conosciuto molto bene dagli spettatori della trasmissione La Source de Vie, diretta da J. Eseinberg, dove è divenuto popolare per le sue chiare esposizioni sul giudaismo e sul Hassidismo. Per rendersi conto della sua popolarità sarà sufficiente dire che il Rabbino J. Eseinberg è diventato suo allievo e suo fervente ammiratore.
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