Dopo il peccato del vitello d’oro, Moshè si trovò a dover nuovamente motivare un popolo demoralizzato e a doverne rimettere insieme i pezzi rotti. Moshè allora radunò (in ebraico “vayakhèl”) il popolo. La parola “kehillà”, che ha la stessa radice di “vayakhèl”, significa “comunità”: una kehillà, o un kahàl, è un gruppo di persone radunate insieme per un determinato scopo. La parola “vayakhèl” infatti compare anche precedentemente, quando la Torà ci dice che il popolo si radunò attorno a Aronne per chiedergli di fabbricare un idolo che li avrebbe guidati al posto di Moshè: egli non era ancora sceso dal Monte Sinài e gli ebrei si sentirono persi e confusi. Allora capiamo che lo scopo per cui un gruppo di persone si assembla in una kehillà può essere positivo o negativo, costruttivo o distruttivo. Nel primo caso ne deriva l’ordine, nel secondo, il caos. Quando Moshè alla fine scese dal monte vide un popolo selvaggio, fuori controllo, oggetto di scherno dei suoi nemici. È noto che quando tante persone si radunano insieme, la situazione facilmente degenera, ad esempio nelle manifestazioni pubbliche. “Vayakhèl” è ciò che Moshè mise in atto per far tornare il popolo in sé. E usò la stessa motivazione che li aveva trascinati nell’idolatria subito dopo aver ricevuto i Dieci Comandamenti. Adesso la loro guida era in mezzo a loro, ed egli fece appello allo stesso senso di generosità che li aveva portati a offrire l’oro per fabbricare l’idolo; questa volta però le donazioni servivano a mettere in pratica il precetto di D-o di costruire un Santuario nel deserto.
Il Santuario
Su ordine Divino, Mosè chiese agli ebrei di portare offerte volontarie per la costruzione del Tabernacolo, il Mishkàn, ed essi risposero così generosamente da indurre Mosè a dire a un certo punto che non c’era più bisogno che continuassero a portare contributi perché avevano già raggiunto la quantità di materiali necessaria alla costruzione dell’edificio santo. Se si vuole unire gli uomini fra loro affinché perseguano il bene comune, la cosa migliore è metterli a costruire qualcosa insieme, assegnare loro un compito che nessuno potrebbe compiere da solo. Diversi studi recenti hanno dimostrato che si possono trasformare fazioni ostili in un gruppo coeso se messe di fronte a una sfida comune, che possono superare solo insieme. È scritto nel Talmud: “Gli studiosi aumentano la pace nel mondo, come è detto ‘Tutti i tuoi figli saranno eruditi in D-o, e grande sarà la pace dei tuoi figli’ (Isaia 54:13). Non leggere ‘i tuoi figli’ (‘banàych’) ma ‘i tuoi costruttori’ (‘bonàych’)” (Berakhòt 64a). Quando gli studiosi diventano costruttori, creano pace. Allora, se si vuole creare una comunità fatta di membri fortemente individualisti, bisogna metterli a costruire, ed è quello che fece Moshè. Il lavoro di squadra, perfino dopo uno sfacelo come il vitello d’oro, non è un mistero né un miracolo, ma l’esito di un compito assegnato a tutti che parli alle loro passioni e pulsioni e che nessuno, individualmente o in un sotto-gruppo, possa svolgere da solo. Deve essere un compito costruttivo, in cui il singolo contributo è unico e viene valorizzato, di modo che ciascuno possa dire: “Io ho aiutato a realizzarlo”. Se vuoi costruire una squadra, crea una squadra che costruisca.
Di Rav Lord Jonathan Sacks
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