Nel suo famoso libro “Il Girasole”, Simon Wiesenthal riporta un episodio struggente: mentre è prigioniero nel campo di sterminio di Auschwitz, con la morte davanti agli occhi tutti i momenti, viene portato ad un ufficiale delle S.S. in punto di morte che vuole chiedergli perdono per le atrocità commesse contro altri ebrei. L’autore, che si considerava lui stesso condannato a morte in quell’inferno senza uscita, restò in silenzio. Nel libro chiede ai lettori cosa avrebbero fatto loro al suo posto, ma il suo silenzio lo attanagliò per tutta la vita. Qual è la prospettiva della Torà in proposito?
I Peccatori Del Diluvio
La generazione di peccatori per antonomasia è quella del Diluvio, che fu completamente annientata. Né prima né dopo, il mondo conobbe una distruzione totale: nessun’altra generazione fu giudicata incorreggibile in toto e completamente priva di meriti. Ma questo non contrasta forse con l’immagine di D-o che abbiamo, ossia del D-o pronto ad accettare il sincero pentimento e Che perdona? Perché proprio questa generazione era incurabile e senza speranza?
La Mishnà afferma: Per i peccati contro D-o, il giorno di Kippùr porta espiazione; per i peccati contro il prossimo, il giorno di Kippùr non porta espiazione fino che a non ci si è riconciliati con la persona a cui si è fatto un torto (vedi Yomà 85b). Questo non perché D-o non vuole perdonare ma perché trasferisce questo potere alla persona offesa. Solo chi ha subito il danno può raddrizzare la situazione; solo chi ha sofferto in prima persona ha il diritto di perdonare. È noto che la generazione del Diluvio si era macchiata di colpe verso le persone: furto, disonestà… vivevano e respiravano inganno ai danni degli altri. Era una società marcia ed eticamente rovinata nella sua totalità. La principale ragione di vita era calpestare il prossimo e godere delle sofferenze altrui. Eppure, per quanto malvagi, questi uomini mantenevano comunque un residuo di coscienza: occasionalmente provavano rimorso e altrettanto raramente provavano a risolvere i conflitti, ma erano episodi individuali ed isolati, che non trovavano riscontro nelle altre persone le quali, non provando alcun rimorso, restavano sorde a qualsiasi proposta di riconciliazione. E così, chi provava a chieder il perdono se ne tornava a casa con la coda tra le gambe, ma anche con una malcelata sensazione di soddisfazione, e se si trovavano loro nella posizione di chi doveva perdonare, ripagavano con la stessa moneta. La conclusione era sempre la stessa: sentimenti di odio e parole e atti ancora più violenti. Tutti quindi si auto-condannarono a dover lasciare un mondo in cui ci si aspetta civiltà e decenza, perché D-o non poteva perdonare fino a che non erano le persone offese a farlo.
La Risposta
Alla luce di tutto questo, come risponde la Torà al dilemma di Wiesenthal? In realtà non è solo una questione morale su ciò che è giusto o sbagliato, ma una questione più pragmatica: una persona ha la facoltà di perdonare un’offesa o un danno recati ad altri senza il loro permesso? Il problema non è se si vuole o si deve perdonare ma se effettivamente si può. Dagli episodi della parashà del Diluvio si deduce che la risposta a chi chiede a D-o assoluzione per colpe commesse contro altri uomini è “no”; nessuno può esprimersi a nome delle vittime senza il loro consenso o mandato. Al di là dei contesti esaminati qui, il concetto è il potere che D-o ha affidato all’uomo. Di tutte le creature, solo l’uomo può commettere e assolvere atti che per volontà di D-o non appartengono, per così dire, alla Sua giurisdizione. D-o ha dato nelle nostre mani la facoltà del perdono personale, da gestire in piena autonomia. È un onere, che richiede grande responsabilità (vedi Shulchàn Arùch Òrach Chaìm 606:1) e che D-o, nella Sua infinita saggezza e bontà, ha ritenuto di poter delegare solo agli uomini. Cerchiamo di farne buon uso.
Di Mendel Kalmenson, chabad.org
Parliamone