Il kibbùtz Kfar Chaim è una roccaforte del socialismo all’israeliana. Eppure, nella sala d’attesa dell’ufficio di Amit Ronen ci sono riviste e opuscoli sull’ebraismo, sulle feste ebraiche... Come questo sabra della terza generazione è diventato un ebreo fiero del proprio ebraismo e praticante delle mitzvòt?

«Nonostante l’atmosfera antireligiosa del kibbutz, i miei genitori erano persone dalle ampie vedute mentali e conoscevamo bene le tradizioni ebraiche benché la nostra famiglia non praticasse nulla. Dopo il mio servizio militare fui nominato responsabile della gioventù in seno al partito politico Avodà. Inoltre, ero membro del segretariato della Histadrùt (il potente sindacato socialista) ed esercitavo già una certa influenza.

Sapevo farmi ubbidire con facilità ed ero dotato di uno spiccato senso dell’organizzazione. Nonostante il miei numerosi impegni ad orientazione politica ben definita, alcune incongruità non mi furono mai chiarite: siamo innanzitutto ebrei o israeliani? Perché il mio partito critica “i coloni” stabiliti nei ”territori”, allorché questi ultimi hanno realizzato importanti progetti agricoli, educativi e culturali altrettanto meritevoli di encomio quanto quelli realizzati dal mio kibbùtz? Quando mi rivolgevo a gente praticante, non ottenevo altro che questa avvilente reazione: ”Prima osserva lo Shabbat e poi poni le tue domande”.

Ma un fatto inatteso e sconsolabile accadde: la morte improvvisa di mio padre che aveva appena quarantasei anni. Era sano e robusto, un’ingegnere agronomo che aveva inventato nuove tecniche che portavano il suo nome. Egli incarnava la bontà. La sua dipartita mi sconvolse e la montagna dei miei interrogativi aumentava di volume e di altezza, senza mai scorgere il minimo sprazzo di luce. Mi recai negli Stati Uniti per specializzarmi nelle ultime scoperte nel settore dell’agricoltura. Arrivai a N.Y. nell’estate dell’81 e seguii le raccomandazioni della mia guida turistica: visitare i quartieri chassidici di Booklyn per farmi un’idea del “folclore” ebraico. Mi immaginavo giocondi personaggi che ballavano tutto il giorno cantando “Oi, Oi, Oi” e altre scene pittoresche.

Così mi ritrovai nella sinagoga sull’Eastern Parkway n° 770, il centro mondiale Lubavitch. In un angolo alcuni giovani studiavano intensamente e non badavano affatto a quanto succedeva intorno. Altri pregavano con tanto fervore che neppure loro mi notarono. Ero deluso: né balli, né esultazioni, né pacche sulle spalle, né canti, né niente, nemmeno un saluto. Decisi di esplorare l’edificio. Era piuttosto male in arnese. Ad un certo punto giunsi davanti ad una porta semiaperta. Entrai. Vidi un ebreo dall’aspetto impressionante, con occhi blu dallo sguardo intenso e un sorriso più che accogliente. Mi fece cenno di entrare.

Durante l’incontro, che durò quasi un’ora, non avevo idea dell’identità del mio interlocutore. Con un marcato accento Yiddish mi chiese, in ebraico, lo scopo della mia visita. Gli esposi tutti i miei dubbi, tutte le mie preoccupazioni morali, filosofiche e psicologiche che mi assillavano da tanto tempo. Mi rispose con cortesia e con molta pazienza. A ripensarci a ritroso, le mie domande non erano sempre prive di arroganza. Tuttavia, non sembrava scandalizzato dal mio modo di esprimermi. Le sue parole lenivano il mio cuore ferito e la mia mente confusa. Era sicuro di sé, tanto calmo e sereno che mi sentii abbastanza a mio agio per confidargli ciò che mi rendeva triste e abbattuto: la morte subitanea di mio padre. Prestò tutta la sua attenzione e la sua concentrazione su di me e, per la prima volta dopo la tragedia, sentii una pace interiore. Non ho mai ceduto all’insistente curiosità altrui e mai ho rivelato niente su quanto mi disse. Gli argomenti di cui discutemmo erano troppo personali.

Mi colpirono sia la forma che il contenuto del nostro colloquio: come le razioni militari che assomigliano ad insignificanti caramelle e che invece contengono gli ingredienti necessari alla sopravvivenza. Era come se quel nobile uomo sfogliasse le pagine della vita che mi aspettava, come se leggesse un libro già scritto, come se sapesse in anteprima tutti gli ostacoli che avrei incontrato in futuro e che possedesse la chiave delle soluzioni. Solo col passare degli anni afferrai perché evocò certi problemi ai quali fornì i suoi suggerimenti per risolverli. Questo ebreo “dall’aspetto impressionante” affermò che in ogni essere umano c’è del bene.

Com’era possibile? Ero in contatto permanente con le alte sfere del potere dove il male spadroneggia. Mi ascoltò rispettosamente fino alla fine, poi pronunciò queste parole che mi accompagnano fino ad oggi, ogni giorno: “Se osservi dal basso, puoi vedere il bene negli altri!» Al termine di questa risanante conversazione, ci accomiatammo amichevolmente e io ignoravo ancora con chi avessi parlato. Non lo conoscevo, così come non conoscevo niente e nessuno del mondo chassidico. Come uscii dal suo ufficio, un giovanotto mi tese la sua foto. Gli chiesi: “Chi è? Sono appena uscito dal suo ufficio e già mi si regala una sua foto?” Lo sconosciuto esclamò incredulo

“Ma come?” Capii in quell’istante che avevo appena vissuto un’esperienza insolita. In men che non si dica fui circondato da decine di studenti, come in una conferenza stampa dove le interviste sgorgano da tutte le parti “Chi sei ?”, “Di che cosa ha parlato col Rebbe?”, ”Quanto tempo è rimasto nel suo ufficio? ». Senza farmi tanti complimenti, ribattei con foga: ”Vergognatevi! E da più di un’ora che sono qui e nessuno si è accorto della mia presenza! Solo adesso vi interesso?”

Sebbene l’incontro col Rebbe mi aveva profondamente segnato, impiegai ancora molto tempo prima di intraprendere la via dell’ebraismo. Feci il passo decisive grazie anche a rav Yossef Dov Sharabi Z”L che, con la sua saggezza, mi incoraggiò ad adottare lo stile di vita del chassidismo Lubavitch.

Gli sarò sempre grato. Tutto cominciò con quella « Yechidùt », quel colloquio privato spontaneo… »

Ari Samit - Rivista Kfar Chabad, tradotto da Myriam Bentolilla. A cura di Sterna Canarutto