Dalle sichòt di mio padre:

Il peccato dei figli di Aharòn fu "che avevano presentato un'offerta (lett. anche: si erano avvicinati) alla presenza dell'Eterno ed erano morti".

Si trattò di ratzò (una tendenza ad elevarsi spiritualmente per unirsi al Creatore, in cui il corpo e la vita mondana sono avvertiti solo come un impedimento) senza shov, ritorno.

La verità è che, quando ci si presenta davanti a D.o, bisogna essere puliti e puri e (la vicinanza) deve concretizzarsi con le azioni di fatto.

Quello che è ai livelli più elevati discende nelle più basse profondità, e ratzò senza shov significa morte.

Più avanti D.o comanda a Moshè (Vaikrà 16, 2) di parlare ad Aharòn.

Le lettere del nome Aharòn sono quelle della parola nirè, "visibile", che nei termini delle facoltà dell'anima, si riferisce all'intelletto.

Moshè deve dire ad Aharòn che, per entrare nel Sacro (nell'area sacra), persino "all'interno della cortina", ovvero nello stato anteriore allo tzimzùm (contrazione, che cela l'infinitezza Divina), egli deve sapere che:

sull'Arca (haAròn, le stesse lettere di nirè, l'intelletto) vi è il kapòret, una copertura, un'intenzione interiore di nascondere, espressa dalle parole: "il volto del (o "l'aspetto interiore del") kapòret."

Per questa ragione uno "non deve morire", egli non deve, cioè, fermarsi al ratzò, alla sola entrata, poiché ".Io apparirò in una nube sul kapòret"; lo scopo interiore del primo tzimzùm è la rivelazione.

La parola che introduce tutto ciò è veàl, "egli non dovrà (entrare)".

Questa espressione di negazione indica il totale annullamento di sé, il bitul, facendo ciò che la Chassidùt richiede, e non quello che l'intelletto suggerisce.

Allora "egli entrerà nel sacro".