Simchàt Torà rappresenta il culmine dei moadìm del mese di Tishrì, ma il periodo delle ricorrenze comincia in realtà il 17 di Tamùz, ossia il giorno in cui Mosè ruppe le Tavole del Patto, quando, scendendo dal Monte Sinài, vide il popolo intento ad adorare un vitello d’oro. Il 17 di Tamùz segna anche l’inizio della distruzione di Gerusalemme. In questo giorno piangiamo la gloria perduta di un tempo e aspiriamo alla ricostruzione del Tempio. La consapevolezza che i nostri avi sono stati mandati nell’esilio in cui ci troviamo ancora oggi a causa delle loro colpe ci porta a fare ammenda per il nostro comportamento, avviando così il processo della teshuvà che caratterizza il successivo mese e mezzo. Il nostro destino per tutto l’anno resta in sospeso fino a Kippùr, che è il giorno in cui D-o perdonò gli ebrei per il peccato del vitello d’oro e diede a Moshè due nuove Tavole con i Dieci Comandamenti. E il cerchio si chiude. Questa conclusione positiva è motivo di gioia, e allora ci tuffiamo nella festa di Sukkòt, il “tempo della nostra felicità”, durante la quale gioiamo per essere il popolo di D-o. Le festività culminano e terminano con la festa della Torà: ci rallegriamo con D-o e D-o gioisce con noi; danziamo con la Torà e la Torà danza con chi la abbraccia. È più che logico in questo giorno leggere l’ultima parashà, che tesse le lodi di Moshè e del suo popolo. È un’ode al nostro popolo, alla nostra forza e al nostro spirito; è un’ode a Moshè, alla sua profezia e alla sua guida. Le ultime parole recitano: “… e per tutta la maestosa forza che Moshè operò davanti agli occhi di tutto Israèl” (Deuteronomio 34:12); alla fine esclamiamo tre volte “chazak” e poi “venitchazèk”, “possiamo rafforzarci”. I Maestri insegnano che “la maestosa forza che Moshè operò” era la forza che mise nel distruggere le tavole. Il punto d’inizio del cammino, allora, ne è anche il culmine!
Opportunità
Questo indica che la Torà è in linea con chi vede le tragedie come potenziali opportunità e un peccatore come un potenziale penitente. Il Talmùd spiega che i nostri avi furono costretti da una forza Divina ad adorare il vitello d’oro; subito dopo aver sentito i Dieci Comandamenti si trovavano in uno stato particolarmente elevato, e non sarebbero stati capaci di tradire D-o in nessun modo se non fosse stato D-o Stesso a portarli a questo, e lo fece per dirci di non disperare e per dimostrare lo straordinario potere della teshuvà (Avodà Zarà 4b), che non solo può riaggiustare il legame con D-o ma può anche renderlo più forte che mai, come una corda che, dopo essersi spezzata, viene riannodata in maniera ancora più solida. Il momento in cui Moshè ruppe le tavole non viene visto dalla Torà come un fallimento ma come l’inizio della guarigione.
Simchàt Torà
Al picco delle celebrazioni, quando ci sentiamo sicuri e sereni della nostra religiosità e devozione, ci viene ricordato tutto questo. E questo è anche il motivo per cui danziamo in cerchio: la fine non è la fine. Inoltre, lo studioso, l’ignorante, l’osservante e il meno osservante sono tutti uguali: un cerchio non ha un punto più basso e uno più alto. Di Simchàt Torà ci sentiamo tutti un’unica entità, e sentirsi uno con un popolo sparso da duemila anni ai quattro angoli della terra, è qualcosa di Divino. Questo giorno, che così festosamente chiude il mese delle ricorrenze, ci ricorda che anche chi sembra lontano dalla Torà può arrivare allo stesso livello del più grande studioso; e quando ci arriverà, non solo eguaglierà lo studioso ma riuscirà anche a superarlo.
Di Rav Lazer Gurkow
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