La parashà di Acharè Mot comincia con il versetto: “E il Sign-re parlò a Moshè, dopo la morte dei due figli di Aharòn, quando essi si avvicinarono al Sign-re e morirono” (l’accaduto è riportato nel cap. 10 del Levitico, parashà di Sheminì). Le ultime parole del verso presentano una difficoltà: perché la Torà aggiunge l’espressione “e morirono” quando ha appena detto “dopo la morte dei figli di Aharòn”?
Il Problema
Il Midràsh spiega che queste erano le mancanze dei due figli di Aharòn: entrarono nel Santo dei Santi; non erano vestiti con gli abiti sacerdotali necessari al servizio; non avevano figli; non erano sposati. Qual è la fonte del Midràsh, e dove si allude nella Torà a queste quattro colpe? E ancora, come osiamo supporre che Nadàv e Avihù fossero peccatori, quando Moshè aveva detto al fratello Aronne che costoro erano “più grandi di entrambi noi”!? Secondo una spiegazione della Chassidùt, i due figli di Aharòn non peccarono nel senso proprio del termine; il loro “peccato” era di aver lasciato che il loro desiderio di unirsi a D-o si intensificasse tanto da farli morire, poiché il loro corpo a quel punto non poteva più contenere la loro anima. La Torà allora dice che essi “si avvicinarono al Sign-re (con tanta passione) che morirono”. Per quanto un ebreo si debba staccare dalle preoccupazioni materiali, appena raggiunge il momento di massima estasi dell’anima deve tornare al lavoro che l’anima deve svolgere durante l’esistenza fisica; Nadàv e Avihù dunque fallirono in questo “ritorno” dell’anima. Andarono oltre il mondo e oltre loro stessi. Questa era la natura di tutte e quattro le mancanze riportate nel Midràsh: entrarono nel Santo dei Santi senza pensare al loro ritorno al mondo esterno; non erano vestiti con gli abiti sacerdotali poiché anelavano a diventare puramente spirituali e trascurarono gli abiti di cui si veste la parola di D-o, ossia le mitzvòt come azioni materiali; non avevano figli e non erano sposati: non adempirono il comandamento “fruttificate e moltiplicatevi” e non portarono nel mondo nuove anime. Non solo non portarono al mondo nuove anime ma allontanarono dal mondo le loro stesse anime. L’ebreo non si unisce a D-o estraniandosi, ma lasciandosi coinvolgere. Ma come si fa a pretendere che una persona ritorni al suo ruolo in questo mondo proprio nel momento in cui raggiunge l’estasi? Se la sua esperienza è genuina, ha rotto tutte le barriere che separano l’uomo da D-o e ha raggiunto il massimo amore per Lui, riuscirà veramente a trattenersi e tornare indietro, e immergersi di nuovo e subito in tutte le costrizioni dell’esistenza umana? Non è forse irrealistico dal punto di vista emotivo?
I Quattro Approcci
La risposta sta nel modo in cui la persona comincia il suo viaggio spirituale: se lo affronta con lo scopo di soddisfare i suoi desideri, per quanto elevati siano, non vorrà di certo tornare indietro in questo mondo dalla sua estasi. Se la sua intenzione invece è quella di obbedire al comando di D-o, sapendo che Egli “non ha creato il mondo perché fosse vuoto, l’ha forgiato perché fosse abitato” (Isaia 45:18), allora nella sua estasi resterà sempre implicito il desiderio di tornare a santificare questo mondo. Nel Talmùd si racconta che quattro Maestri entrarono nel “Pardès” (i segreti mistici della Torà): Ben Azài, Ben Zomà, Achèr e Rabbì Akivà. Ben Azài guardò e morì; Ben Zomà guardò e ammattì; Achèr diventò apostata; Rabbì Akivà “entrò in pace e uscì in pace”. Visto che l’importante era il modo in cui i quattro Maestri uscirono, perché il Talmùd specifica che Rabbì Akivà entrò in pace? Perché l’importante è come si entra. Rabbì Akivà entrò in pace, in obbedienza alla volontà divina e con lo scopo di unire i mondi inferiori e quelli superiori. La sua intenzione di tornare era implicita all’inizio del suo cammino. Questo era il modo in cui Aronne doveva entrare nel Santo dei Santi: con timore, reverenza e auto-abnegazione. Così egli era in grado di espiare per sé e per la sua casa, e pregare per il sostentamento di Israele, agendo in ogni istante per il bene del mondo.
Adattato da Rabbi Jonathan Sacks da una sichà del Rebbe di Lubàvitch
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