Durante la settimana di Sukkòt si abbandona il comfort delle proprie case per recarsi nella precaria e modesta Sukkà: fatta di legno, plexiglas, tendaggi e tessuti vari ecc e coperta con rami e frasche è ben lontana dalle solide quattro mura di casa, con il salotto e il divano. Eppure è proprio in questa capanna che invitiamo ospiti a mangiare e ad intrattenersi infatti, proprio la struttura precaria e le condizioni climatiche incerte sono parte della mitzvà di risiedere in Sukkà per sette giorni.

Questa mitzvà ricorda le capanne con le quali D-o ha protetto gli Ebrei nel deserto, ed è da osservare in autunno, quando il clima è ventoso e incerto, proprio perché la Sukkà non diventi una sorta di ‘dimora estiva’ ma un luogo dove ci rendiamo conto di trovarci esclusivamente sotto la protezione di D-o. È in quest’ottica che vanno invitati gli ospiti: tutti uniti, a volte anche stretti (ma mai scomodi!) con il solo sostegno della fede nella Provvidenza. La chassidut spiega che entrando nella Sukkà con il solo scopo di adempiere alla mitzvà si merita di accogliere la Schechinà, la Presenza Divina. Essa però non basta: occorre avere anche ospiti in carne ed ossa, che bevano e si nutrano.

È opportuno invitare i bisognosi e le persone più modeste. Il grande tzaddik e maestro di

c h a s s i d u t Rabbi Levi Yitzchak di B e r d i t c h e v s p i e g ò u n ’ u l t e r i o r e ragione del fatto di invitare nella Sukkà i più umili. Lui stesso era solito portare nella propria

Sukkà le persone più semplici e meno istruite. I suoi seguaci gli chiesero perché non si circondasse invece di uomini del suo calibro, della sua cultura e dalla sua statura spirituale.

Egli rispose così: “Nel mondo a venire, quando i Giusti saranno seduti insieme nella Grande Sukkà, io chiederò di poter entrare, ma non me lo permetteranno. Questo perché sono una persona come tante altre e non mi meriterò di sedere fra i Giusti. Potrò però replicare che io ho sempre fatto entrare nella mia Sukkà la gente semplice comune”.