Quella della Sukkà è una delle mitzvòt più affascinanti e piena di significati metafisici. L'obbligo della Sukkà è l'impegno del ricordo di quando il popolo ebreo visse nella precarietà più totale, in una situazione talmente al limite delle possibilità umane da entrare in una sfera completamente soprannaturale.

Nella Sukkà, profumata di frutta e di erbe, costruita sotto il cielo stellato, che si ricerca per un breve momento una dimensione di annullamento totale della condizione dispersiva di oggi per ritornare a quella intensamente mistica di tanti secoli fa. Ed è là, attraverso i tempi, che dalla capanna del mercante olandese del '700 del luccicante interno illuminato da candele e profumato di essenze portate dall'Oriente, dove la moglie con la cuffia inamidata e adorna di trine serva il pasto rituale su vasellame prezioso, come ci tramanda l'iconografia del tempo; o durante il Cinquecento nella sua, nel ghetto dove il misero ebreo romano vessato dai papalini e obbligato al mestiere di straccivendolo, che ritrovava la sua dignità solo quando la sera, a cancelli chiusi, poteva immergersi nei suoi studi talmudici, o il marrano spagnolo, obbligato a rinnovare i suoi riti sacri solo nel più assoluto segreto e con la complicità dei servi fedeli o come del resto l'ebreo di oggi sulla terrazza o nel giardino di casa in una Sukkàforse prefabbricata o addirittura mobile legge un libro, il Libro che è il condensato della sapienza umana di tutti i tempi, il libro del quale nè il filosofo zen dal suo monastero, né il monaco indù dal saio arancione, né il disilluso stoico romano alla ricerca di se stesso potrebbero discutere una sola parola: Qohelet.

Qohelet è il condensato di ogni pensiero umano, la summa di ogni pellegrinaggio spirituale. Il libro apparentemente più negativo e nella sostanza più positivo nella storia dell'esperienza ascetica umana, perché in Qohelet ogni domanda trova la sua risposta.

Qohelet è l'inno dell'abbandono consapevole a D-o dell'uomo che dopo aver tutto visto e tutto sperimentato ha concluso che tutto è vanità e che solo il Sign-re conosce il perché delle cose. Qohelet è un re, Salomone in persona, così almeno ci assicura la tradizione, e così noi crediamo, considerando vanità anche le pretensiose messe a punto della critica moderna. Ora questo re ha avuto ogni sorta di esperienze, da quella della conoscenza intellettuale vissuta anima e corpo, a quella dei piacceri terreni, ai quali si è applicato a scopo, diciamo così, empirico, pur rimanendone distaccato. Qohelet si è circondato di cose belle da quelle che possono procurare piacere estetico come alberi, giardini, acque, a quelle che possono dare piacere affettivo. Ha avuto numerose mogli, secondo l'uso del tempo. E qui, ci dice, è stata la delusione maggiore. Non una sola compagna ha trovato capace di dargli la vera comunione spirituale, fatto questo da notare proprio all'epoca nostra, quando la donna si pretende emancipata scade sempre di più nell'odalisca preoccupata di piacere con stracci e profumi, piuttosto che di dare alla propria anima e alla propria spiritualità almeno una parvenza di bellezza interiore.

Vorrei ricordare a questo proposito una storia chassidica. Un celebre Rabbino amava talmente sua moglie per le grandi qualità morali e per la bellezza suprema del suo spirito che solo dopo anni e anni, quando la santa donna morì, si accorse che aveva una gamba di legno. In una sola donna, ed anche, per usare la terminologia di oggi, portatrice di handicap, un saggio poté trovare più conforto di quanto riuscirono a darne al Re donne innumerevoli e bellissime.

Ed ecco ancora Qohelet osservare desolato la condizione umana, la sofferenza apparentemente senza scopo, l'empio fortunato, il giusto oppresso dalle disgrazie, la sorte comune al sapiente e allo sciocco, all'uomo e alla bestia; il lavoro svolto dai padri operosi per i figli scioperati, l'eredità del brav'uomo goduta dall'empio se non addirittura dallo straniero.

L'uomo contro il quale sono sempre in agguato sventura e morte è qualcosa di talmente fragile da sgomentare. Vanità, dice Qohelet, tutto è vanità nella vita dell'uomo, nella quale tutto è precario, nulla è sicuro, tutto possibile di rovina.

Non per questo Qohelet è un nichilista. Niente di più lontano di questo dal suo modo di pensare. Qohelet ha anzi una filosofia di incalzante pragmatismo, è un sostenitore del lavoro, perché nell'opera stessa delle sue mani e nel riposo dopo la fatica l'uomo può trovare i suoi momenti di serenità. Il savio lavori, ricordando però che tutto è nelle mani di D-o.

E anche se l'essere umano è impotente a spiegare quello che avviene sotto il sole, è bene godere delle gioie della famiglia, della ricchezza guadagnata, senza porsi troppi perché. La vera sapienza, ci dice Qohelet, che pure è un coltissimo, è solo quella Divina. Come si vede questa Sfiducia totale nella ragione umana, questo considerare come qualsiasi sistema filosofico sia vano in confronto ai problemi drammatici della

vita reale, è quanto di più attuale si possa immaginare.

A questo arrivarono i filosofi orientali dopo secoli di meditazione, a questo i grandi pensatori greci che inventarono il metodo filosofico occidentale, a questo i moderni esistenzialisti. L'uomo non sa nulla, non può nulla. In apparenza la sua vita è solo una vuota commedia, come diceva Shakespeare, recitata da idioti, piena di rumore e di furia che non significa niente. Ma ecco la conclusione di Qohelet, che appunto non è un pessimista ma un saggio, che anzi dalla constatazione del male ha visto soltanto aumentare la sua ammirazione per l'opera di D-o e la fiducia totale nei Suoi disegni. Ammesso che la vita sia solo vanità, che cioè qualsiasi cosa faccia l'uomo sia apparentemente indifferente, inutile e vana, ecco quali sono l'essenza e il significato dell'umano travaglio: Temi D-o e osserva i Suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo. Perché D-o farà venire in giudizio ogni opera, tutto ciò che è occulto, sia bene, sia male.

Ecco che le azioni che all'uomo sembrano tutte ugualmente vane e senza scopo, perché destinate a finire nella morte e nell'annullamento, assumono un significato diverso attraverso il giudizio di D-o; questi apparenti vaneggiamenti, queste azioni senza costrutto assumeranno un peso diverso nell'ottica divina. La commedia umana, questa commedia recitata da idioti e da sapienti, ha avuto uno spettatore trascendente, D-o stesso. Egli conosce il significato che per l'uomo è misterioso e oscuro, Egli sa chi è stato buon attore e chi mediocre e chi pessimo, chi si è attenuto a un piatto copione, chi ha improvvisato, come i grandi Tzadikkim, meravigliose variazioni, incredibili monologhi. Chi ha preferito rinunciare, chi ha fatto orrendi soprusi per accaparrarsi i ruoli principali, chi ha saputo trasformare una particina minore in ruolo di grande peso. Perché, ci rammenta Qohelet, un giovinetto povero può uscire di prigione e diventare re, e un vecchio re, carico di regalità e di magnificenza, rincretinire e danneggiare il suo popolo.

E per questo si legge proprio nella Sukkà Qohelet, nell'abitazione precaria, nell'instabile capanna costruita sotto le stelle, e si medita sulla fragilità della nostra condizione umana e sulla potenza di D-o, su come una capanna possa essere infinitamente più sicura di un grattacielo industriale, su come la povertà sia preferibile alla ricchezza acquistata sulla pelle e sul sangue dei nostri simili, su come le nostre scelte umane, politiche, esistenziali, economiche, abbiano senso solo se fatte in un'ottica diversa, da quella divina.

Come ogni comandamento della Torà, quello della Sukkà ha in sé un significato talmente profondo, talmente tangibile da diventare ogni giorno di più intenso e attuale. E non è questo il miracolo più grande di D-o, che ognuno di questi insegnamenti dati ai nostri antichi Padri, in tempi remoti, in un paese lontano, si rinnovi in ogni istante in modo da parlare alle nostre anime attraverso i tempi?

di Donatella Valori z"l