Reb Mendel Futerfas fu imprigionato in un campo di lavori forzati in Siberia, incriminato per aver aiutato alcuni suoi correligionari a scappare dall’Unione Sovietica durante i giorni bui successivi alla Seconda Guerra mondiale. Numerosi altri detenuti erano intellettuali o avevano esercitato delle libere professioni nelle classi alte della società. Vennero imprigionati per “la minaccia che rappresentavano per l’ideologia dell’Unione Sovietica”.
Queste persone si domandavano spesso come facesse Reb Mendel a restare sempre di buon umore, nonostante le condizioni disumane del campo. Quando glielo chiedevano direttamente, egli rispondeva: “Voi siete demoralizzati perché la prigionia vi impedisce di raggiungere lo scopo della vostra vita. Lo scopo della mia vita è quello di servire D-o. E questo, lo posso fare in qualsiasi luogo”.
Una Sottile Via di Fuga
Accantonati per un momento i danni inflitti al nostro corpo dall’assunzione di sostanze illecite o dall’eccessiva consumazione di alcool, ed anche il loro impatto negativo nelle relazioni sociali e professionali, gli stupefacenti tradiscono di fatto le aspettative di chi vi ricorre per colmare il vuoto che sente nella propria vita. Poiché, in definitiva, non risolvono niente. Offrono solo un’evasione temporanea dalla malinconia o dalla sensazione di inadeguatezza che a volte s’impadronisce di una persona. Ma il fatto di provare uno stato di estasi artificialmente provocato non fa scomparire il problema. Quand’anche si arriva a svuotare la coscienza di tutte le sue angosce, queste dimorano assopite nel subconscio e impediscono alla persona di esserne completamente sollevata. Come disse una volta un saggio: “La gente crede di poter affogare i problemi bevendo, ma non sa che i problemi galleggiano…”
In ogni caso, la fuga non è appannaggio esclusivo degli stupefacenti. A un livello più profondo, la maggior parte delle presunte fonti di felicità sono, in una certa misura, una forma di fuga. Sono una fuga da noi stessi, un tentativo di trovare la felicità all’esterno invece che cercare la vera felicità interiore. Mentre siamo intenti a rincorrere dei beni effimeri e questa famosa “felicità”, pensiamo che il vuoto interiore e l’infelicità siano dovuti alla nostra incapacità di raggiungere i nostri obiettivi. E ci convinciamo del fatto che il tanto agognato benessere e la felicità irromperanno nella nostra vita appena guadagneremo i primi milioni… Se solo sapessimo quanto tutto questo è futile.
Ho letto una citazione dell’attore multimilionario Jim Carrey, il quale si augurava che tutti possiedano quello che lui ha, solo affinché la gente si renda conto di quanto non abbia nessun valore!
La Felicità
La felicità non scaturisce da quello che una persona possiede. È vero che proviamo una tangibile soddisfazione quando realizziamo qualcosa, ma anche questa felicità è incompleta, poiché comunque non saremo mai totalmente soddisfatti di ciò che abbiamo realizzato. La vera felicità consiste nell’essere felici di chi siamo, nell’essere soddisfatti della nostra identità.
Durante le festività, ed in particolare di Yom Kippùr, ci ricolleghiamo con la profondità della nostra mente e con l’essenza della nostra anima, eternamente ed incondizionatamente legata a D-o.
È proprio per questo legame incondizionato che D-o ci accorda ogni anno il Suo pieno perdono, malgrado il nostro comportamento.
Durante Kippùr, però, l’atmosfera è troppo solenne ed intensa, e noi siamo troppo assorbiti dal nostro pentimento per poter assaporare ed apprezzare ciò che traspira da questo momento sublime. Abbiamo bisogno di qualche giorno per interiorizzare questa straordinaria verità: il nostro legame con D-o – è questo che siamo! E poiché si tratta della nostra stessa identità, nulla può alterarla. Tentare di rompere il legame di un ebreo con D-o è come cercare di trasformare una mucca in un cavallo!
“Beati noi! Com’è buona la nostra parte! Com’è gradevole la nostra sorte! E come è bello il nostro retaggio!” recita la nostra liturgia.
E così, per sette giorni, dimentichiamo tutto il resto. Ci lasciamo dietro la nostra casa, i nostri beni, tutte le altre fonti immaginarie di benessere – e usciamo in una capanna precaria ma che non si estingue. Cantiamo, gioiamo e diciamo “lechaim”. Siamo felici perché finalmente possiamo concentrarci su ciò che conta veramente nella vita: noi stessi!
Di Rav Naftali Silberberg per gentile concessione di Chabad.org