La parashà presenta un paradosso: essa inizia evocando Yom Kippùr, nel quale gli uomini sono considerati angeli e si conclude con regole inerenti alla carnalità. Com’è possibile mettere in guardia “angeli” dal compiere atti abominevoli? La risposta sta nel nome della parashà: Acharey-dopo e nel suo primo versetto: “E D-o parlò a Moshè dopo la morte dei due figli di Aharon quando essi si avvicinarono a D-o e morirono”.
A Yom Kippùr ci si avvicina a D-o, ma tale iniziativa non è sufficiente, bisogna prevedere quanto accadrà dopo. Pentimenti sinceri devono essere in grado di condurre a concreti miglioramenti dopo le promesse pronunciate innanzi al Sig.re. La spiritualità fa parte della dimensione umana, pertanto, è utile rammentarsi di non trascurarla e di integrarla in seno alla nostra realtà fisica. Sebbene la mente a Yom Kippur sia rivolta verso l’alto, i nostri occhi non devono staccarsi dal basso e dal futuro, stando bene attenti ad astenerci dal commettere peccati inammissibili.
Autocontrollo: Simbolo di Santità
La parashà di Kedoshim comincia con l’ingiunzione di essere “santi”. Rashi spiega che santità significa “autocontrollo”. Il Nahmanide sostiene che l’autocontrollo deve condurci a fare di meglio, di più: se un alimento è permesso, ciò non implica che bisogna nutrirsene in modo ingordo. Ciò a dimostrare che siamo esseri liberi e non schiavi dei nostri istinti.
La parashà tratta ampiamente questo principio soffermandosi in modo particolare sull’insegnamento “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Rabbi Akiva disse che è la base della Torà e congloba tutti gli altri aspetti del pensiero ebraico. La padronanza di sé permette di non vendicarsi, di non serbare rancore, di non proferire parole offensive e persino di dominare il nostro pensiero impedendogli di avere pareri negativi sul prossimo. La persona potente è colei che riesce a sottomettere tutti i suoi impulsi, soprattutto nelle relazioni interpersonali.
Elevarsi per Amare
Naturalmente, è impresa assai ardua afferrare un concetto che pone sullo stesso piano l’amore del prossimo all’amor proprio. Si ama, di norma, una persona con la quale dividiamo un denominatore comune, una persona comoda insomma, e, comunque, ci sembra impossibile far raggiungere ai due sentimenti il medesimo livello. Come fare dunque? Innanzitutto, tramite un‘opera d’introspezione, capire che siamo animati da una scintilla divina, la quale anima in egual modo anche l’altro e quindi accettare che questa brilli ed illumini quanto la nostra. In seguito, cercare di annichilire l’ego, l’io, l’egoismo e le aspirazioni materiali. Volere bene qualcuno implica non domandarsi come ci può tornare utile ma valorizzare le sue forze positive e divine. Qual è il nesso tra santità e amore del prossimo? Elevandosi nella santità, saremo in grado di vedere il bene nascosto in ogni ebreo che ci circonda. Come disse Hillel: “Questa è tutta la Torà!”
Tratto da Likkutè Sichòt
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