Nonostante avesse abbandonato numerose pratiche religiose durante la sua adolescenza nei campi di sterminio, Benjamin A. Samuelson, aveva notato che i suoi compagni detenuti che erano rimasti osservanti avevano una certa forza morale che altri non possedevano. I suicidi erano frequenti: la fame, il freddo e la disperazione facevano precipitare i detenuti contro i fili spinati. Ma gli ebrei praticanti si aggrappavano a delle mitzvòt quali ricordare le date del calendario, recitare a memoria parti della Mishnà e dei Salmi. Alcuni di loro, pur di compiere una mitzvà, rischiavano la vita. Leggiamo le parole del sig. Samuelson:
Ero al lavoro già da parecchie ore quando ascoltai qualcuno chiamarmi per nome e non per il numero che mi avevano tatuato per sempre sul braccio sinistro. Troppo concentrato sul mio lavoro, ignoravo chi mi stesse chiamando; d'altronde nessuno mi chiamava se non per il mio numero. Mi chiamarono ancora una volta, con l’accento yiddish: “Benjamin A. Samuleson, sei proprio tu?” Finalmente alzai la testa e guardai dall’altra parte del tavolo. Inizialmente non riuscivo a crederci ma era proprio mio zio Mordechai, il fratello di mia madre… Mi ricordavo di lui come un uomo robusto, gioviale, alto 1,95 m. Ma l’uomo davanti a me era tutto incurvato, dimagrito in modo terrificante.
Ci abbracciammo sotto il tavolo e parlammo il più velocemente possibile, ognuno chiedendo notizie degli altri membri della famiglia, senza avere neanche il tempo per rispondersi.
Una guardia urlò in tedesco il numero di mio zio affinché smettesse di perdere tempo. Non appena il Nazista uscì dal reparto, mio zio mi pose la domanda che tratteneva sin dall’inizio: cos’era successo a sua sorella Rachel, mia madre? Non avevo bisogno di rispondergli, indicandogli il camino delle camere a gas… Aveva capito sin dall’inizio e distrutto dal dolore come me, rimase in silenzio per un lungo momento.
Adesso avevo qualcuno della famiglia con me, non mi sentivo più completamente abbandonato. Mio zio Mordechai era molto pio, conosceva a memoria numerosi brani della Torà.
Tutto questo accadde pochi giorni dopo che ero stato incaricato di smistare i vestiti dei deportati. Durante questo lavoro trovai dei Tefillìn avvolti con cura da un Tallìt, nascosto nella manica di una camicia. Sembravano molto vecchi ma erano stati usati con molta cura. Potevo tranquillamente immaginare il vecchio ebreo che li aveva utilizzati per decine di anni. Li mostrai a mio zio Mordechai. Il suo viso diventò raggiante, i suoi occhi esprimevano una gioia che non avevo mai visto in questo posto maledetto. Li prese dolcemente, sembrava aver dimenticato tutto ciò che lo circondava e mormorò: "È passato così tanto tempo!"
Rividi mio zio lo stesso giorno dietro una baracca, tentava di non farsi notare ma io avevo capito: era riuscito a far uscire Tallìt e Tefillìn dalla sala di smistamento e adesso pregava con indosso i Tefillìn. Poche persone lo notarono ma purtroppo un Nazista lo aveva visto e gli puntò contro il fucile: "Ladro!"
Mio zio evitò i colpi, poi si mise a guscio d’uovo per proteggersi la testa e per diminuire al massimo la superficie del suo corpo. Sapevo che era meglio per me scappare al più presto, ma non potevo abbandonare lì mio zio che il Nazista continuava a picchiare con cattiveria. Mio zio era l’unico membro della mia famiglia che mi era rimasto! Mi precipitai verso di loro e supplicai la guardia in tedesco: “è mio padre, vi prego, non lo uccidete!”. La guardia si fermò, sorpresa, e mi squadrò con uno sguardo altezzoso, veramente schifato, uno sguardo che ancora oggi ricordo: “Come? Hai un ladro come padre?”.... tratteneva ancora mio zio e teneva ancora il pugno sul fucile.
“Vi prego, ha fatto un errore soltanto! Lasciatelo!” vidi mio zio muoversi leggermente nonostante stesse sanguinando dappertutto. Saperlo ancora vivo mi dava coraggio.
“Vi prometto che è l’ultima volta, non ricomincerà più!”.
“La prossima volta sarò senza pietà!” minacciò il Nazista mentre rimetteva a posto il fucile e si allontanò. Poteva andare peggio. Gli afferrai la mano mentre cercava di riprendersi.
“Ti prego! Non lo rifare più!” lo supplicai “Hai visto che cosa è successo?”.
Scosse la testa, era sempre incapace di parlare. Indossava ancora i Tefillin sul braccio sinistro: perdeva molto sangue. Allora si mise a piangere. Poi mi guardò attraverso le sue lacrime e come per scusarsi del fatto che ero intervenuto in suo favore, spiegò: “Come potevo resistere nel vedere i Tefillìn?”.
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