L’incendio. Avevo costruito la mia prima casa con le mie proprie mani nella foresta chiamata Baal Shem Tov nei pressi della cittadina di Meròn, in Galilea. Allorché avevo appena finito la struttura in legno, dimenticai che vi avevo lasciato dentro delle candele accese! Il vento propagò il fuoco in tutta la casa che fu completamente bruciata. Avevo pure una bellissima biblioteca, ma tutti i libri furono ridotti in cenere. Eccetto uno! Il suo titolo era Brachà Vehatzlachà, una raccolta di suggerimenti e insegnamenti impartiti dal Rebbe che recava la sua fotografia in copertina. Mia madre l’aveva ricevuto in regalo da uno shaliàch del Rebbe a Hertzlya per ringraziarla di un’offerta che ella aveva fatto al suo Beth Chabàd anni addietro e lei a sua volta lo regalò a me. Era l’unico libro uscito incolume dall’incendio.
I dolori. Decisi dunque di costruire un’altra casa. Avevo comprato le assi, i chiodi e tutto il materiale necessario e montai tutto da solo. Ma verso la fine della costruzione, cominciai a sentire dei dolori spaventosi alla schiena. Ingenuamente, pensai che sarebbero spariti altrettanto improvvisamente di come sono arrivati, ma non fu così e in più i dolori si fecero sempre più lancinanti. Rimasi tre giorni a letto, incapace di muovere un dito. Ogni mossa mi provocava sofferenze indicibili. Decisi quindi di ricorrere all’aiuto di un professore che mi aveva insegnato la medicina alternativa dello Shiatsu. Purtroppo, nonostante la sua professionalità, il suo aiuto non servì a niente.
Ero disperato. Questa situazione non migliorava il mio morale. Dopo due gironi, decisi di compiere uno sforzo sovrumano e di recarmi presso la tomba di Rabbi Shimòn bar Yochài, poco distante da casa mia, per pregarvi con fervore.
Un libretto caduto dal cielo. Mentre ero seduto, un giovanotto chabàd passò davanti a me e appoggiò su un tavolo un libretto “Dvar Malchùt” aperto, evidentemente con l’intento di tornare e di leggerlo poco dopo. Istintivamente mi misi a leggerlo. E non credetti ai miei occhi. Il testo che stava sulla pagina aperta – appresi più tardi che si trattava di una lettera del Rebbe di Lubavitch – parlava di vertebre! Il Rebbe faceva notare che, sebbene rappresentino una parte importante del corpo umano permettendogli di stare in piedi dritto, tuttavia, non erano considerate come delle membra del corpo.
Ed è cosi – diceva il Rebbe – che funziona per la preghiera: mentre la tefillà permette a un ben Israèl di connettersi con Hashèm, essa non è considerata come una mitzvà della Torà. La colonna vertebrale annovera diciotto vertebre come il numero di benedizioni presenti nella Amidà – la preghiera che si pronuncia in piedi.
I tefillìn! Leggevo tutto ciò con occhi increduli. Stavo lì, sofferente di mali di schiena orribili e la provvidenza divina mi presentava le spiegazioni del Rebbe. Continuai a leggere. In uno stralcio di un’altra lettera, il Rebbe parlava dell’importanza di far verificare i tefilìn. Ed era una cosa che io non avevo mai fatto. Da cinque giorni non ero stato in grado di pregare correttamente e tantomeno di tenermi in piedi per l’Amidà… forse c’era davvero un problema con i miei tefilìn?
Non persi altro tempo. Nonostante i dolori, mi recai immediatamente, direttamente dalla sinagoga di rabbi Shimon bar Yochày, a casa di uno sofèr (uno scriba) a Tzefat, il quale accettò di aprire i tefillìn subito, davanti a me. Quando li aprì esclamò: “I suoi tefillìn sono assolutamente psulìm, ovvero non kashèr!” Si riscontrò che un verme si era intrufolato nella scatola e aveva completamente roso la pergamena! Ero sotto choc! Lo sofèr mise le pergamene in una scatola destinata al seppellimento degli oggetti sacri non più validi e mi prestò un paio di tefillìn, da usare nel frattempo. In strada mentre rincasavo, ero un po’ sconvolto, inorridito dall’idea che avevo messo, durante anni forse, dei tefillìn non Kashèr. Ma ero altrettanto sconvolto e rallegrato dal fatto che il Creatore mi aveva mandato una lettera del Rebbe che mi aveva condotto direttamente dallo sofèr che mi avrebbe permesso da quel momento in poi di usaresolo dei tefilìn kashèr.
E con tutto ciò le soprese non erano finite…
Appena arrivato a casa, benché la mattinata volgesse ormai al termine, misi i tefilìn e cominciai a pregare. Fino a quel momento, per l’Amidà, mi alzavo a stento, appoggiandomi sullo schienale di una sedia che piazzavo davanti a me. Quando giunsi al versetto finale “Ossé shalom…”, girai il capo, come si usa, prima a destra, poi a sinistra poi in mezzo e capii che ero stato capace di effettuare quei movimenti senza provare neanche un dolorino. E a partire da quel momento i mei dolori di schiena sparirono così come apparvero improvvisamente. Non oso pensare a come sarei oggi se non fossi incappato, nel mio cammino, in quella lettera del Rebbe in cui raccomandava il controllo dei tefillìn !
Dr Matan Yehoshua Sadovnik
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