Nel settembre di quest'anno mi trovavo a Corfù con mio marito per trascorrervi la nostra luna di Miele. Abbiamo deciso di trattenerci li soltanto per pochi giorni poiché si avvicinava Yom Kippùr e volevamo tornare a Roma in tempo per poter pregare e trascorrere questo sacro giorno nella sinagoga insieme agli altri ebrei. Eravamo certi che a Corfù, con una popolazione che ammonta a circa 100.000 abitanti, non ci fossero né una comunità ebraica né tanto meno una sinagoga. Ma ci sbagliavamo! A correggere questa nostra errata impressione è intervenuta la circostanza di essere scesi, del tutto casualmente, all'albergo King Alkinos di Kerkira, la capitale di Corfù.

La sera stessa del nostro arrivo siamo andati al bar dell'albergo per bere qualcosa. Appena vista la donna dietro il bancone ho provato dei brividi freddi: è ciò che provo ogni qualvolta vedo le persone con quei numeri tatuati sulle braccia.

Agendo d'impulso le prendo il braccio, quello tatuato, e cerco di farle capire quanto la sento vicina. Mio marito invece mi fa capire con lo sguardo che forse dovrei essere più discreta, evitando il rischio di evocare dei terribili ricordi.

Ma io voglio mostrarle che anche se appartengo ad una generazione diversa dalla sua, condivido ugualmente quella tragedia, quel dolore e tutta quella inaudita sofferenza che deve aver vissuto. Mi rifiuto di ignorare tutto ciò, non mi sento proprio di far finta di non aver visto quei numeri.

Quando sente che siamo d'Israele il suo viso si ravviva: anche lei è un'ebrea! E subito comincia a parlarmi in un buon ebraico nel quale si avverte un dolce accento greco.

Il suo nome è Perla Soussi e mi racconta che è stata ad Auschwitz da bambina insieme a sua sorella. Il resto della famiglia fu ucciso e fu solo grazie ad un miracolo se le due bimbe sopravvissero patendo insieme la fame, il freddo, le malattie, la paura e quanto altro di orribile un campo di sterminio possa riservare.

Quando le diciamo che abbiamo intenzione di tornare a Roma in tempo per Yom Kippùr, lei ci risponde, «E perché non vi trattenete a Corfù con noi? Qui c'è la sinagoga con due Sefer-Torà, facciamo i servizi ed osserviamo tutte le feste». E così abbiamo deciso di rimanere.

Alla vigilia di Yom Kippùr ci siamo recati in casa di Perla che ci ha invitati a mangiare con lei e con la sua famiglia.

Durante la cena, con grande stupore, mi accorgo che Perla discorre in perfetto italiano con una coinvitata, Allegra Belleli.

Chiesta la ragione mi viene spiegato che le rispettive famiglie sono di origine italiana, per la precisione, veneziana, e che a casa loro si parlava italiano da sempre. Scoprimmo così di avere una seconda lingua in comune. Allegra ci racconta che anche lei è stata ad Auschwitz ed anche la sua famiglia è stata uccisa. Nel corso della conversazione il marito di Perla racconta che prima della guerra vivevano a Corfù circa 3.000 ebrei, ma attualmente non ne rimanevano che una sessantina, gli altri non sono più tornati dai campi di concentramento.

Dopo mangiato siamo andati alla sinagoga. Sulla porta d'ingresso abbiamo riconosciuto i simboli familiari della stella di Davide e della Mezuzà. In sinagoga non c'è tanta gente, ma c'è un minyan e così possiamo cominciare le preghiere di Erev Yom Kippùr. La comunità ebraica di Corfù non ha né un rabbino né un hazan e queste funzioni vengono espletate dal capo della comunità il Sig. Coen.

Eravamo certi di essere la sola coppia straniera, ma a servizio già iniziato ecco aggiungersi a noi un'altra coppia; lui israeliano, lei ebrea americana. Veniamo a sapere che reduci da un viaggio d'affari si sono trovati per caso a Corfù, hanno iniziato a cercare ebrei e qualcuno gli ha indirizzati alla sinagoga. Dopo pochi minuti ecco arrivare un'altra coppia di israeliani che erano in campeggio nella parte settentrionale dell’isola. E di lì a poco ecco fare la sua comparsa una ragazza proveniente dal Galles - suo padre è stato in quella sinagoga tanti anni fa e le ha consigliato di venire qui per Yom Kippùr. A poco a poco, quasi senza che ce ne accorgessimo l'atmosfera fu pervasa da santità, sentimmo aleggiare tra noi un profondo sentimento di unità fra tutti gli ebrei.. ovunque si trovino, qualsiasi cosa facciano, tutti in questo sacro giorno obbediscono all'impulso di presentarsi davanti all'arca e pregare insieme, idealmente fusi agli altri ebrei sparsi in tutto il mondo.

In momenti di grazia come questo mi appare evidente che veramente siamo non soltanto un popolo, ma una famiglia unita. Eccoci qui nella sinagoga nel sacro giorno di Yom Kippùr tutti venuti ugualmente a pregare nella stessa antica lingua, le medesime preghiere, solo gli accenti sono diversi: greco, inglese, americano, italiano, israeliano. Tanti accenti per un'unica fede e un'unica comunità.

Un'altra idea mi apparve evidente quella sera: è impossibile dividere la nostra appartenenza al popolo ebraico dalla nostra religione: è una sola cosa! E la migliore dimostrazione di ciò è il nostro bisogno di venire al tempio per le feste e la voglia di dividere queste sacre occasioni con altri ebrei, da qualunque nazione essi provengano, e le nostra disponibilità a contribuire con le mitzvot alla prosperità delle nostre comunìtà e soprattutto il legittimo desiderio di dare ai nostri figli una giusta educazione ebraica, in modo che questi valori possano tramandarsi e perpetuarsi all'infinito.

di Dott.ssa Tzvia Kavalsky