Nel 1994 Pinny Young e Mendi Lipsker furono mandati dal movimento Lubavitch a Krivoyrog in Ucraina per aiutare le comunità ebraiche a ristrutturarsi, ridotte ai minimi termini dopo settant’anni di comunismo. Qualche mese dopo, il governo israeliano inviò una delegazione composta da giovani funzionari al fine di incoraggiare gli ebrei ucraini ad intraprendere la Alyà (emigrazione in Israele). I due rabbini erano ben noti e furono quindi sollecitati per l’organizzazione di un seminario di due settimane destinato a 250 ragazzi ucraini. Oltre alla gestione materiale, dovevano provvedere alle necessità spirituali. Ecco il racconto di Pinny: “I partecipanti vennero da tutta l’Ucraina e si diedero appuntamento in una località del paese, da lì ci recammo tutti insieme in una stazione sciistica dei Carpazi. In una delle città circostanti, trovammo un cimitero ebraico e una vecchia sinagoga in disuso. Ottenemmo l’autorizzazione di servircene per le Tefillot di Shabbat. Furono due settimane ricche di scambi culturali, discutemmo molto di filosofia ebraica, dei comandamenti e di Torà e così nacquero nuove amicizie. Fu un vero successo.

Un giorno chiamai un taxi e chiesi al conducente di portarmi nei vari siti ebraici della zona. Avevo già acquisito una certa dimestichezza con la lingua russa, ma fui molto sorpreso quando egli mi ingiunse con tono sgradevole: “Mi parli in ucraino”. Gli sorrisi e gli risposi che non la conoscevo la sua lingua. Lui invece non sorrise affatto! Aveva un corpo di dimensioni mastodontiche e cavò, da non so dove, un lungo coltello e mi minacciò: “E' nel tuo interesse parlare ucraino”. Spremetti il mio povero cervello, ma non ottenni niente, non trovai neanche una misera parola in ucraino. Il tassista si ferì volontariamente sul braccio. Il sangue colava e mi disse che se non avessi obbedito avrebbe fatto la stessa cosa sul mio collo. Era molto serio e sapevo che in quel paese quei tipi d’incidenti erano storie di ordinaria amministrazione. Ero perfettamente consapevole che non stava sscherzando. Non potevo battermi fisicamente, era un gigantesco ammasso di muscoli e se avessi tentato la fuga mi avrebbe facilmente riacchiappato. A quel punto un’idea folgorante attraversò la mia mente. Mi ricordai di un canto che il Rebbe insegnò una volta ai suoi chassidìm. Unendo i gesti alle parole come un tenore, cominciai: “Stav ya Pitou...” (Questa canzone descrive gli ucraini che faticano tutta la settimana e che affogano le loro preoccupazioni nell’alcool. È una parabola per l’anima ebraica la quale, durante la settimana, affronta la realtà materiale, le sue angustie e le sue tentazioni, ma di Shabbat si ubriaca di Torà e di mitzvot). Il gagliardo scoppiò a ridere. Mi diede una pacca amichevole sulla spalla allorchè due minuti prima intendeva uccidermi. Mi disse di continuare a cantare senza fermarmi. Mi fece visitare tutti i luoghi che avevo richiesto, poi mi propose di bere con lui. Mi servì in uno smisurato bicchiere una grande quantità di vodka, ma solo finsi di bere e versai tutto per terra.

Mi ripresentai al gruppo che ero ancora sotto shock e raccontai a tutti l’accaduto. Ciò mi permise di spiegare il concetto di Hashgachà Pratìt (Provvidenza Divina) e della premonizione del Rebbe nell’insegnarci quella canzone.

La nostra missione volse al termine, ritornammo in America e mi sposai. Con mia moglie Sonia mi trasferii a Buffalo nello Stato di New York. Un anno fa, andai in visita dai miei suoceri che risiedono anch’essi a Buffalo. In quel momento avevano un ospite da Israele, il Dr. Simon Reif. Ci parlò di una giovane coppia Lubavitch residente a Karné Shomron precisando che la moglie in passato non era praticante. Ella gli raccontò che nel 1994, ancora nubile, era stata mandata in Ucraina dal governo israeliano e che lì ebbe interessanti conversazioni con due rabbini Lubavitch incaricati di dirigere il loro gruppo di lavoro. L’interessata riferì lo sventurato incontro tra uno di loro e un tassista particolarmente pericoloso. Di nuovo a casa sua, rifletté a lungo su quella vicenda. Inoltre, era rimasta impressionata dall’entusiasmo di questi due rabbini, dalla loro gioia nel compiere le mitzvot, dai loro vasti orrizzonti mentali e decise quindi di avvicinarsi all'ebraismo.

“Lei conosce il nome di questa signora?” Domandai. “Sì, si chiama Bete Shayovitch”. Continuai: “Mi dica, sa chi sono i due Lubavitch?” Mi rispose negativamente e a quel punto rivelai che uno dei due ero proprio io! Rimasero tutti a bocca aperta e ci soffermammo a parlare delle meraviglie della Hashgachà Pratìt. Il dottore annotò il mio indirizzo che comunicò poi a Bete. Quest’ultima mi scrisse una lunga lettera alla quale allegò una fotografia che la ritraeva con il marito e i suoi due figli.

Yehudit Cohen

Tratto da "Sidra de la semaine" - Parigi