È risaputo che il Rebbe investiva immensi sforzi per far pervenire agli ebrei d’Unione Sovietica oggetti di culto e libri di preghiera e di studio oltre che notevoli somme di denaro per sostenerli finanziarmente. All’inizio degli anni ‘50, il Mossad (i servizi segreti israeliani) aprì un’apposito ufficio con lo scopo di aiutare gli ebrei sovietici. A questo scopo i responsabili si misero in contatto con il Rebbe, consapevoli di quanto l’ebraismo sovietico gli stesse a cuore. Grazie a questi particolari legami il Rebbe era in grado di mantenersi in contatto con i suoi chassidìm e più in generale con gli ebrei di quell’immenso paese.
Nel 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni, l’Unione Sovietica decise di chiudere l’ambasciata israeliana a Mosca, probabilmente come rappresaglia per la folgorante vittoria di quel picccolo paese contro i suoi vicini. Questo fatto rese più difficili le missioni del Mossad. Il Rebbe tuttavia vigilava su tutto. Racconta un agente del Mossad: “Subito dopo la guerra fui convocato assieme a tre compagni negli uffici generali del Mossad. Il comandante descrisse la situazione degli ebrei sovietici, delle grandissime difficoltà che incontravano per guadagnarsi da vivere, dei numerosi fratelli rinchiusi in carceri lontante o spediti ai tristemente noti “campi di lavoro” della Siberia”; ci parlò anche della grandiosa e totale devozione dei chassidìm all’ebraismo del paese. “La vostra missione sarà di alleviare le loro difficoltà economiche. Appena entrati in territorio sovietico vi metterete in contatto con i chassidìm di Lubavitch a cui consegnerete denaro e altri oggetti importanti”.
Il comandante aggiunse poi, per nostra grande sorpresa, che la nostra prima tappa sarebbe stata New York dove avremmo incontrato il Rebbe. Stentavo a capire quali potessero essere i legami di un rebbe con con il Mossad. Ne parlai in segreto con mio padre (che anche lui aveva preso parte a missioni segrete) e rimasi stupito dal fatto che che egli non lo fosse per nulla. Mi raccontò con naturalezza che era abituato a scrivere al Rebbe prima di ogni missione per chiedergli una benedizione. Dall’interruzione delle relazioni diplomatiche, i responsabili del Mossad erano abbastanza pessimisti e li rassicurava soltanto la serietà dell’intervento del Rebbe, sul cui senso di responsabilità si sentivano certi di poter contare.
Il giorno stabilito arrivammo all’ufficio del Rebbe, che ci strinse la mano accogliendoci calorosamente. Parlava in ebraico ma con una pronuncia ashkenazita. Non ricordo con precisione le sue parole, ma di certo ne ho ancora ben chiaro il messaggio, che aprì con una breve descrizione della situazione degli ebrei sovietici. Ci guardava dritto negli occhi e dal canto nostro ci risultava quasi impossibile sostenere la profondità del suo sguardo, che rifletteva un dolore profondo. La sua voce era soffocata quasi avesse un nodo alla gola. Parlava con lo stesso smarrimento di un padre con il figlio in carcere… Poi il Rebbe consegnò ad ognuno di noi una moneta di 10 centesimi e ci raccomandò di tenerla indosso per tutta la durata della nostra permanenza. La moneta era avvolta in modo molto particolare in un pezzo di carta marrone di circa 2 centimetri su 2, incollato a sua volta ad un altro pezzo di carta. Il pezzo superiore era tagliato a forma di cerchio del preciso diametro della moneta. Il cerchio era ancora un po’ attaccato al pezzo di carta e copriva la moneta. Su di esso erano state scritte, probabilmente da rav Hodakov, il segretario del Rebbe, le parole: “Da parte del Rebbe come protezione”.
Rimasi molto colpito da quell’incontro e dall’importanza che il Rebbe attribuiva alla nostra missione. Il Rebbe ci strinse ancora una volta la mano e aggiunse molto lentamente le seguenti parole, tutt’ora incise nel mio cuore: “D-o vi protegge”. Non ci stava augurando: “D-o vi protegga”, bensì affermando un dato di fatto. E aggiunse: “Ritornate in pace”. Uscimmo, mentre il comandante rimase un altro po’ da solo con il Rebbe. Ciascuno di noi doveva far passare un giubbotto oltre la frontiera. Mani esperte avevano inserito nei bottoni orologi d’oro molto costosi: in ogni giubbotto ve ne erano ben 18, in totale 72! Non sapevamo se ci fosse altro in quei giubbotti: forse delle lettere nascoste nei colli?
Il nostro contatto in Russia era un chassìd che si guadagnava da vivere come domestico nel nostro albergo di Mosca. Giunti all’albergo, ci procurammo un giornale ebraico scritto in yiddish e ci sedemmo ad un tavolo, fingendo di leggere. Poi salimmo di nuovo alle nostre camere e tornati dabbasso trovammo il giornale capovolto, come d’accordo. Capimmo che la persona che dovevamo incontrare si trovava sul posto e infatti notammo che il domestico fischiettava una melodia chassidica mentre puliva. Sempre secondo gli accordi uno di noi riprese la stessa melodia e ci scambiammo qualche segnale discreto. Tre quarti d’oro dopo ci trovammo in un camioncino che ci portò molto lontano. Il silenzio era totale nel veicolo. Il camioncino si fermò bruscamente in una casa in rovina. Ci introdussimo in una cantina con due chassidìm (il conducente e il domestico). Ci spogliammo rapidamente dei nostri giubbotti e ricevemmo in cambio altri del tutto identici! I chassidìm erano in stato d’allerta e non pronunciarono una parola. Sempre in silenzio ci abbracciarono calorosamente e poi fuggirono nel loro camioncino mentre quasi dal nulla ne comparve un altro, che ci ricondusse all’albergo. Missione compiuta.
Sono tutt’ora convinto che la nostra fu soltanto una delle numerosi missioni in cui il Rebbe collaborò con il Mossad. Dal suo ufficio uscii con la ferma convinzione che il Rebbe non si lasciava mai sfuggire l’occasione di aiutare gli ebrei sovietici.”
Tradotto da Aharon Leotardi
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