Un passeggero di una certa età si presentò un giorno allo stand Lubavitch dell’aeroporto Ben Gurion in Israele. Si avvicinò con viso amichevole ed i responsabili di turno gli offrirono, prima che si imbarcasse, una tazza di caffè. Egli accettò a condizione che questa fosse colma fino all’orlo. I chassidim non posero domande, sebbene molto stupiti da tale richiesta e ubbidirono alla sua volontà. La tazza era talmente piena che il minimo movimento l’avrebbe fatta traboccare. L’uomo era già anziano ma bevve senza far colare neanche una piccola goccia. Con un gran sorriso sul viso spiegò “Capisco i vostri sguardi: mi comporto così per dichiararvi quanto è grande il vostro Rebbe!” E cosi iniziò il suo racconto: “Tanti anni fa ero il rav di una grande sinagoga a New York. C’era minyan tutti i giorni, lezioni di Torà e tante altre attività. Insomma, costituivamo una comunità molto dinamica. Nel nostro edificio vi era anche un mikvé per le signore. Ma poco a poco molti dei nostri membri lasciarono il nostro quartiere per stabilirsi in zone più sicure della città e in periferie residenziali più eleganti e gli anziani purtroppo cominciavano semplicemente a spegnersi.
Il comitato della sinagoga mi comunicò che era inutile mantenere aperto un edificio tanto grande per un pubblico così ristretto. Mi opposi a questa decisione, riferendomi alle parole del Rambam (Maimonide): “Non si vende una sinagoga, a meno che non s’intenda costruirne una più grande”. In realtà alcune persone continuavano a frequentare sia il Bet-Hakeneset che le lezioni di ebraismo. Per giunta, il mikvé accoglieva ogni sera, come di consueto, le signore provenienti da tutti i quartieri di New York. Un giorno la responsabile del mikvè mi confidò che ogni sera il Rebbe di Lubavitch le telefonava, domandandole come stava e la incoraggiava a perseverare nel lavoro con dedizione e fiducia. Questa situazione durò alcuni mesi fino al momento in cui, in mezzo ad una lezione di Ghemarà (Talmud), la signora irruppe improvvisamente nella stanza. Sconvolta e quasi in preda all’isteria, annunciò che qualcuno aveva chiuso il mikvé con un enorme chiavistello! Capii che il comitato non aveva trovato niente di più dissuadente che sbarrare l’entrata! Così era certo di scoraggiare le donne una volta per tutte. Non so cosa mi passò per la mente, ma senza riflettere, mi precipitai verso la mia automobile da dove cavai gli utensili necessari, mi recai direttamente al mikvé e mi piazzai davanti alla porta con palesi intenzioni. Mi misi all’opera e dopo un’ora di sforzi sovrumani riuscii a far saltare il catenaccio: le signore che mi osservavano discretamente da lontano poterono finalmente entrare nell’edificio. L’indomani, la responsabile del bagno rituale mi disse che il Rebbe l’aveva chiamata la notte precedente, come aveva sempre fatto da un po’ di tempo, e lei gli spiegò a quale espediente dovetti ricorrere per salvare la disperata condizione. Il Rebbe pronunciò: “Benedette siano le mani che hanno rotto il catenaccio”. Volevo solo mostrarvi questo: ho raggiunto la veneranda età di novantun anni e le mie mani non soffrono di tremori grazie alla Berachà del Rebbe!”
Rav Tuvia Bolton
Lehaim-www.ohrtmimim.org/torah
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