Rav Israel Meir Lau, già rabbino capo d’Israele, si accingeva ad entrare nella grande aula dove doveva aver luogo un simposio sulla gioventù e l’identità ebraica. Si riassestò la cravatta, si mise il cappello e si sedette accanto a colui che molto probabilmente l’avrebbe contraddetto, Mordechay Bar-On, detto Morélé, colonnello di riserva e ex deputato della Knesset. Mentre il rabbino capo ripeteva a mente le argomentazioni che avrebbe esposto, al colonnello venne chiesto di prendere la parola.
“Vorrei raccontarvi”, cominciò, una vicenda accadutami a metà degli anni sessanta. Eravamo una squadra di sportivi israeliani e dovevamo concorrere in Unione Sovietica. All’epoca, naturalmente, si trattava di un evento straordinario. Gli ebrei moscoviti, alla notizia di ricevere correligionari venuti da Israele, erano al settimo cielo ed impazienti di incontrarli in carne ed ossa alla sinagoga di shabbat mattina. La sinagoga quel sabato era gremita di gente; entrarono gli atleti con la kippà in testa e il servizio cominciò. Ma in quel momento avvenne qualcosa di increscioso: uno degli sportivi fu chiamato alla Torà ma… non sapeva pregare. Che vergogna. L’israeliano era molto a disagio. E gli ebrei locali erano rimasti sgomenti nel vedere un ebreo israeliano che non conosceva la benedizione prima della lettura della Torà.
Questo incidente provocò una tempesta d’indignazione in Israele: gli uomini politici erano attonitinello constatare a che punto un’intera generazione fosse lontanissimadai valori dell’ebraismo. Il ministro dell’Educazione, Zalman Oren, pronunciò un discorso rimbombante; non si accontentò di un discorso ma esigette lezioni di ebraismo in tutte le scuole statali del paese. In effetti, la faccenda era stata presa sul serio, fondi furono stanziati all’uopo e si elaboròun programma di studi adeguato.
Quanto a me, servivo quale colonnello nel programma educativo dell’esercito israeliano. Il ministro della pubblica istruzione mi invitò per discutere della situazione. Affermò con enfasi che Zahal, l’esercito, era praticamente la scuola più grande del paese; pertanto, il sottoscritto, ovvero il responsabile, dovevo preparare delle conferenze che vertessero esclusivamente sull’ebraismo. Il ministro mi avrebbe fornito il budget necessario; l’obiettivo, aggiunse il Sig. Oren, era che ogni soldato doveva, durante i tre anni di leva, colmare le sue lacune in materia.
Questa sua arringa accesa mi lasciò senza parole. Il ministro stava forse diventando religioso? Dopotutto, pensai, andava avanti con l’età e forse si rendeva conto che doveva presto comparire davanti al tribunale del Mondo della Verità e ciò spiegava il suo atteggiamento. Risposi con una domanda classica: “Saul è diventato profeta?” rifacendomi al brano biblico in cui il re Saul cominciò a profetizzare, cogliendo di sorpresa tutto il popolo. Egli mi guardò dritto negli occhi “Non pensare che sono tornato alla pratica religiosa. Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, ero di leva nell’esercito russo. Un giorno in cui eravamo in mezzo a combattimenti particolarmente barbari, il campo di battaglia si era trasformato in un mare di sangue. Ma eravamo all’aria aperta, senza nascondigli o ripari. Gli aerei tedeschi ci bombardavano e ci sentivamo come obiettivi di un tiro al bersaglio. Improvvisamente sentii un dolore molto acuto sul lato sinistro. La gamba sprizzava sangue. Con la mano destra cercai di far uscire dalla tracolla la vanga per scavare un buco dove nascondermi. Con la mano sinistra cercavo di fermare l’emorragia. Ma fallii in entrambi i tentativi. Mi sentivo una nullità ed ero in preda alla disperazione ma ad un tratto sentii una voce interiore come quella del mio maestro del ch7der, la scuola elementare ebraica: “Prega, Zalman, prega! Dì qualcosa, prega!” Ma subito dopo un’altra voce si fece udire: “Andiamo, suvvia! Non essere un estremista, dall’età di diciassette anni, Gli hai voltato le spalle, hai smesso di mettere i Tefillìn, ed ora, perché hai bisogno di Lui, ti ricordi che devi pregare?” E, in effetti, non pregai. Capisce, Morélé, concluse il ministro, non ridivento praticante. Tuttavia, trovo che è importante che la gioventù sappia e conosca qualcosa. Io avevo studiato al chèder e poi alla yeshivà e almeno sapevo. Ma i giovani di oggi non sanno niente.”
Zalman Oren aveva finito di parlare e io riflettevo. Dopo poco gli dissi: «Ora tocca a me raccontarle un ricordo personale: la Campagna del Suez era appena cominciata, nel 1956, e io ero al comando di un’unità di carri armati. Una sera, mentre con una mano sventolavo una bandiera verde per indicare la via e con l’altra tenevo il volante, udii un’esplosione: una granata era scoppiata sul mio carro e l’aveva completamente distrutto. Io fui lanciato a decine di metri più in là, ferito e con il corpo pieno di schegge; la cosa più strana è che non avevo perso conoscenza. Sentivo i carri armati che sfilavano molto vicini a me. Ero steso a terra, perdendo sangue a fiumi quando, una voce rimbombò nella mai mente: ‘Morélé, prega! Prega!’ Ma, sa una cosa, signor Oren, non sapevo pronunciare una parola di preghiera. Desideravo ardentemente pregare ma non sapevo cosa dire!! Questa è senz’ombra di dubbio la differenza tra le nostre generazioni: lei appartiene a quella che sapeva ma che non voleva pregare. Mentre io appartengo alla generazione di coloro che vogliono ma non sanno!»
Mordechay Bar-On aveva concluso il suo discorso. Il silenzio regnava in tutta l’aula. I partecipanti sentirono che questa testimonianza cambiava completamente il tono della serata. Rav Lau stesso, seppur abile oratore, sentì che qualsiasi altra parola sarebbe stata superflua. Si avvicinò a Mordechay, gli strinse la mano con le lacrime agli occhi.
Mentre i due oratori scendevano dal palco, un giovanotto con tanto di kippà, barba e lunghe peot, evidentemente uno studente di yeshivà, si alzò e dichiarò: «Scusatemi se mi permetto di intervenire, pronunciò con voce timida, volevo solo dirvi che io sono il nipote di Zalman Oren!»
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