Mi ero appena stabilito a Bondi, in Australia, nel 1987 per divenire il rabbino di una sinagoga. Una delle signore della comunità venne a chiedermi di proporle un nome ebraico. I suoi genitori non avevano considerato utile di dargliene uno quando nacque. L’avevano chiamata Leonie, come il nonno Leo, versione inglese del nome ebraico-yiddish Arié Leib, in riferimento al leone, simbolo della tribù di Yehudà. Avrebbe voluto chiamarsi Ariella, in quanto, secondo lei, Arié e Leonie evocavano entrambi il leone e che Ariella ne era la forma femminile. Tuttavia, temendo che Ariella fosse troppo “moderno” per lei che era tanto legata alle tradizioni, pensava che nomi più classici come Rachel o Lea le si addicessero di più.
Le feci notare che «l’ebraismo insegna che quando due genitori scelgono un nome sono benedetti dal Ruàch haKòdesh, l’ispirazione divina. Personalmente, non posso avvalermi di questa ispirazione e pertanto non sono in grado di darle consigli in materia. Ma il Rebbe, invece, sì. Se vuole, gli scriverò una lettera e chiederò il suo parere». Leonie accettò. E anche di più: stese lei stessa la domanda esponendo quanto spiegato a me. Ma omise di dire che desiderava il nome Ariella. Mi fece leggere la lettera prima di spedirla e fui stupito da questo oblio che le feci notare: «il Rebbe sarebbe di sicuro interessato a sapere quale nome le piacerebbe avere». Mi rispose che non riusciva a capacitarsene, sentiva che questo nome era troppo occidentale e che il Rebbe non l’avrebbe approvato. È vero che ai quei tempi “Ariella” poteva sembrare inusuale per un’ebrea praticante, sebbene oggi sia diffuso tra tutti. Inviai la lettera via fax a New York e in meno di ventiquattr’ore ricevemmo la risposta del Rebbe tramite il suo segretario, rav Leibel Groner: «Il nome Ariella è molto comune ai nostri giorni!» In altre parole, il Rebbe indicò il nome che ella preferiva e al contempo aveva allontanato le sue reticenze. Ne era incantata ma stupita, come peraltro lo ero io: il Rebbe aveva “letto” quel che ella serbava in fondo al cuore, il nome che gradiva di più. E in una sola frase aveva spazzato via tuti i suoi preconcetti.
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Un episodio analogo avvenne due anni dopo con una giovane madre. Uno dei suoi amici, rav Pinhas Woolstone il quale dirigeva la Jewish House a Sydney, venne a trovarmi una domenica per parlarmi di una famiglia che non conoscevo. La mamma aveva appena dato alla luce un maschio e, per dare il nome al bebè durante la Brit Milà, aveva lei stessa bisogno di un nome ebraico. La Brìt doveva svolgersi venerdì e quindi giovedì mattina, giorno di lettura nel Sèfer Torà; il padre sarebbe potuto salire alla Torà per darle il nome. Proposi di scrivere al Rebbe. Mandai via fax la lettera quella domenica stessa, aspettammo qualche giorno fino a mercoledì, ma non ci era pervenuto alcun riscontro.
In qual caso, se lo dovevano scegliere da sé il nome. La giovane neomamma si chiamava Jennifer e un’alternativa logica sarebbe stata Giuditta. Ma le piaceva Bracha, che non ha nessuno legame fonetico con Jennifer.
Si ostinò tanto – nonostante l’obiezione di tutti – che fu quello il nome che suo padre le conferì davanti alla Torà. Giovedì mattina, mi recai dalla mia sinagoga alla Jewish House. Via arrivai circa venti minuti dopo il termine della preghiera e nel frattempo arrivò un fax. Pinchas era lì in piedi con un fax tra le mani e balbettando disse: «Non riesco a crederci, non riesco a crederci!»
«Pinchas, cosa c’è di tanto incredibile?»
Non mi rispose, così gli presi il fax dalle mani. Leggendolo, ripetei pure io: «Non ci credo, non ci credo!» Il segretario del Rebbe che era seduto lì si stupì pure lui: «Cosa vi succede signori rabbini? Cosa c’è di tanto difficile da credere?»
Il fax recava quanto sotto:
«Riguardo a Jennifer, suggerisco il nome Bracha. E vorrei mettere per inciso che ogni persona ha il diritto di attribuirsi il nome che predilige!»
Ancora una volta, il Rebbe aveva optato per il nome che ella stessa aveva desiderato, aveva letto nei suoi pensieri e aveva fatto intendere a tutti i familiari e amici che non era il caso di opporsi alla sua volontà.
E così per due volte, ero stato testimone che il Rebbe aveva indicato il nome che la persona interessata aveva scelto.E nei due casi aveva aggiunto in calce una breve spiegazione che corrispondeva alla situazione in questione.
Ho il ricordo molto nitido che quando tenevo in mano questo fax, sentivo letteralmente un’ispirazione divina. È un momento che non dimenticherò mai!
Rav Moshé David Gutnick – JEM
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