La guerra era scoppiata il giorno stesso di Yom Kippùr nel 1973, cogliendo di sorpresa tutta la nazione d’Israele. I riservisti erano stati mobilitati nelle sinagoghe stesse, mentre avevano ancora sulle spalle il tallìt e cercavano di leggere e pronunciare ancora qualche parola di preghiera salendo sui camion e le jeep. Si diressero verso sud, verso il nord. Difficili combattimenti li aspettavano e ognuno si preparava interiormente al peggio.
Arié Dov Shwartz era specializzato nel soccorso ai feriti. Aveva già ricevuto da diversi giorni l’ordine di presentarsi l’11 Tishrì alla sua base militare, ovvero all’indomani del giorno del digiuno. I suoi bagagli e pacchi erano dunque già pronti.
Nato in Romania, Arié Dov era figlio di un colonello dell’esercito ungherese che aveva combattuto durante la prima guerra mondiale. All’avvicinarsi della seconda guerra mondiale, la famiglia Schwartz volle emigrare in terra d’Israele ma le autorità comuniste gliel’avevano vietato. È solo dopo la il conflitto che poterono andare in Israele, pensando di trovare finalmente un po’ di pace, di riposo e di serenità. La famiglia non era molto praticante ma Arié Dov era stato mandato a prendere lezioni per il suo Bar-Mitzvà. Il suo professore, rav Naftali Roth, l’aveva pazientemente guidato nelle vie dell’ebraismo, che Arié amava molto ed è così che cercava, dall’età di tredici anni, di rispettare quante più mitzvòt possibili.
Durante il suo servizio militare, si era dedicato anima e corpo a soccorrere i feriti ed ora aveva il presentimento che doveva partecipare ad operazioni pericolose: estrarre soldati da un carro armato colpito dai missili, soccorrere piloti i cui aerei si erano schiantati a terra e che rischiavano di essere catturati dai nemici. La sua prima missione lo condusse sulle alture del Golàn. I soldati erano troppo poco numerosi ma combattevano come leoni. E poi gli venne comunicato che il motore di un carro armato aveva ceduto e che ora questo carro si trovava circondato dal nemico che già assaporava il piacere di impadronirsi di questa preda preziosa. In quel momento Arié presentì che non era da solo, così uscì su un vecchio carro, senza armi, per individuare l’ubicazione del carro e del relativo equipaggio in pericolo. Miracolosamente, ci riuscì, entrò nel carro tutto scassato del quale pervenne a far rifunzionare il motore. Ma proprio in quel momento una pallottola colpì il cranio del suo comandante. Arié non ebbe il tempo di piangere la morte del suo compagno di battaglia, che un carro siriano già si era appostato sulla collina proprio di fronte a lui. Poté vedere nitidamente la torretta dalla quale partivano i tiri assassini e che lo prese personalmente di mira. Ora stava ad affrontare l’ufficiale siriano e i due uomini potevano anche squadrarsi a vicenda. Arié già vedeva la sua vita sfilare davanti a sé come in un film, e nella sua mente, faceva gli addii alla sua famiglia. Era ovvio che non aveva alcuna possibilità di uscirne vivo. Ma improvvisamente avvenne il miracolo: il carro siriano si allontanò, fece marcia indietro e sparì!!
«Come mai sono stato risparmiato all’ultimo minuto?» Si domandò Arié ancora tremolante dalla testa ai piedi.
La risposta l’ebbe qualche giorno dopo quando la sua unità ricevette l’ordine di riversarsi verso sud. Un riservista sulla quarantina si aggregò a loro ma non emise neanche un verbo per tutto il tragitto.
Ad un tratto, in pieno deserto del Sinai, videro una succà e un chassìd propose loro di entrare, di ristorarsi un po’, di pronunciare la benedizione sulla Succà e quella sul Lulàv (mazzo con quattro specie vegetali). I soldati erano più che felici di questa sosta e della possibilità di compiere delle mitzvòt. Solo il riservista taciturno rifiutò. Arié, tuttavia, reiterò la proposta:
- Dài, vieni a dire la brachà!
L’uomo alzò le spalle e persistette nel suo diniego.
- Senti, fallo per me. Insistette Arié! Io ti ho fatto un favore dandoti un passaggio, e tu ricambi dicendo la brachà.
Ora l’uomo non poté più opporsi. Afferrò il libro che gli tendeva il chassìd, ma prima di poter pronunciare una sola parola, si mise a tremare e a singhiozzare. Nessuno riuscì a fermarlo. Poi svenne.
Quando lo rianimarono e riprese i sensi, cominciò a parlare:
«Ero solo un bambino durante la Shoà ma ho subito le peggiori torture e ho visto tutta la mia famiglia farsi sterminare davanti ai miei occhi. Io ero stato” scelto” dai nazisti per vivere e non ne ho mai capito la ragione. Che senso ha la vita quando non hai più famiglia? Serbavo molta rabbia nei confronti del Creatore e decisi di rompere tutti, ma proprio tutti, i rapporti con Lui.
Oggi, è la prima volta – dopo trentacinque anni in cui presi questa decisione – che mi rivolgo al Padrone del mondo!»
I soldati rimasero interdetti dal racconto di questo soldato.
Anche Arié era sotto shock. Poi capì perché era stato salvato dal carro armato siriano: aveva ricevuto in dono la vita al fine di permettere ad un altro ebreo di riallacciare i legami, troppo a lungo interrotti, con il D-o dei suoi avi.
Sichat Hachavoua – N° 1499