L'inizio dell'anno ebraico è un ritorno all'evento originale: lo ricorda il grido dello shofàr, che unisce la terra al cielo.
"A Rosh Hashanà verranno scritte e nel giorno del digiuno di Kippur verranno firmate le sentenze di ogni anima; alcuni passeranno a miglior vita, altri nasceranno; chi vivrà e chi morrà, chi raggiungerà la propria meta e chi non la raggiungerà; chi perirà nell'acqua e chi nel fuoco; chi di spada dovrà morire e chi sbranato da una fiera; chi morirà di fame e chi di sete; chi per il fragore di qualche cataclisma e chi per qualche epidemia; chi per soffocamento e chi per lapidazione; chi si riposerà e chi andrà errabondo; chi vivrà tranquillo e chi tormentato; chi troverà la pace e chi sarà turbato; chi si impoverirà e chi si arricchirà; chi verrà denigrato, e chi innalzato: e la Teshuvà e la Tefillà e la Tzedakà, il ritorno al Signore, la preghiera e la giusta carità annulleranno il rigore della sentenza!"
Così narra il poema U-Netane Tokef. A Rosh Hashanà viene celebrato l'inizio dell'anno ebraico: il Capodanno, che coincide con l'anniversario della creazione dell'uomo sulla terra.
"Oggi viene creato il mondo; oggi sottometti a giudizio ogni creatura del mondo; sia come figli, sia come schiavi: se è come figli abbi pietà di noi come un padre ne ha per i suoi figli. Se è come schiavi, ecco, i nostri occhi rimangono sospesi (nel vuoto) finché avrai pietà di noi e la nostra sentenza verrà alla luce."
Rosh Hashanà, giorno del ricordo, stabilisce il corso del nuovo anno che viene. Lo accompagnano pentimento, preghiera, carità. A uno sguardo fugace parrebbe che questi temi non siano affatto peculiari dell'ebraismo.
Ma una lettura più profonda, che analizza l'etimologia dei termini, rivela nette differenze nel modo di intenderli tra l'ebraismo e le altre religioni.
Teshuvà, il pentimento
I concetti di pentimento e di penitenza vengono tradotti nella lingua ebraica con il termine charatà, che sottolinea le intenzioni di un individuo verso nuovi modi di agire, migliori dei precedenti.
Generalmente tradotto con la parola "pentimento", il vero significato di teshuvà è invece "ritorno": nel giorno di Rosh Hashanà si ritorna alle radici della propria storia e del proprio io più profondo. È un invito all'introspezione e all'analisi interiore che chiunque può compiere.
Tefilà, la preghiera
La traduzione esatta in ebraico del termine "preghiera" è bakashà, richiesta, domanda. Bakashà sottolinea le richieste al Signore affinché Egli soddisfi i nostri bisogni.
Tefilà significa invece attaccamento. Rosh Hashanà è una solenne ricorrenza a testimonianza del duplice legame tra l'uomo e il suo Creatore da un lato, e l'Eterno e il Suo creato dall'altro: "... S'innalzerà il Tuo Regno, e si rinsalderà nella benevolenza il Tuo trono..."
Tzedakà, la carità
L'esatta traduzione di "carità" in ebraico è chessed. Tuttavia a Rosh Hashanà non viene usato questo termine ma quello di tzedakà.
Chessed sottolinea la bontà e la libera scelta di colui che dona. Tzedakà invece proviene dalla parola ebraica tzedek, che significa "giustizia", e sottolinea l'obbligo di donare, a ricordo del fatto che ciò che si dona non è proprietà dell'uomo, ma gli è stato affidato dal Signore affinché ne usufruisca insieme agli altri, conscio che ciò che dà non è suo, ma gli è stato affidato affinché ne dia agli altri poiché è scritto nei Salmi: "Il cielo è il cielo per il Signore ma la terra è stata data all'uomo".
La festa di Rosh Hashanà non è dunque soltanto un ricordo, ma un "ritorno" dell'evento originale. È chiamato Rosh Hashanà, letteralmente "capo" dell'anno, non solo l'inizio, ma il capo: come il capo contiene la vita, ed è il centro nervoso del corpo, così Rosh Hashanà contiene la vita e il sostentamento per l'anno intero.
Nel primo giorno di Rosh Hashanà immediatamente dopo la sua creazione, Adamo riconobbe e proclamò la regalità del Signore sull'Universo, e chiamò tutte le creature: "Venite, adoriamo, inchiniamoci di fronte al Signore nostro Creatore".
Per questo la mitzvà (precetto) principale di Rosh Hashanà è suonare lo shofàr. Era tradizione infatti suonare lo shofàr in occasione dell'incoronazione dei re. È scritto: "Lo shofàr può essere suonato senza che il popolo tremi?" I1 suo messaggio è rivelato dalle parole di Maimonide:
"Svegliatevi dormienti dal vostro sonno e voi assopiti alzatevi dal vostro torpore, meditate sulle vostre azioni; ricordate il vostro Creatore e tornate a Lui pentiti. Non siate tra coloro che dimenticano la realtà nella loro ricerca delle ombre, e sprecano i loro anni nella ricerca di cose vane che non possono godere o salvare. Esaminate le vostre anime e considerate i vostri atti; abbandonate le vostre strade e i vostri pensieri cattivi e tornate al Signore perché Egli abbia misericordia di voi!"
Lo shofàr rappresenta il semplice, inalterato grido di una persona che non può esprimere a parole i suoi sentimenti: la tekià, il suono diretto, è un grido dal fondo del cuore; i shevarim-teruà, i suoni spezzati, sono il singhiozzo e il lamento oltre al grido. Lo shofàr è stato paragonato al grido di un bimbo disperato che, in un paese lontano, ha dimenticato la lingua del suo popolo e di suo Padre. A1 suo ritorno, e di fronte al Padre, il suo unico modo di comunicazione è un semplice grido. I1 Padre lo riconosce, e si volta per sollevare il bambino, perché gli sia vicino. In egual modo, quando giunge Rosh Hashanà, il popolo ebraico va incontro al Padre Celeste, ma si rende conto di aver perso la capacità di comunicare con Lui. Così dal fondo delle anime lo shofàr grida: "Padre, Padre".
E il Signore risponde, assicurando un anno dolce.
I suoni dello shofàr erano presenti al momento del ricevimento della Torà sul Monte Sinai. Lo spirito con cui gli ebrei accolsero la Torà era di accettazione incondizionata: Naasé Ve Nishma, faremo ed ascolteremo.
Lo shofàr, ricavato da un corno di ariete, rappresenta infatti la totale devozione al Signore da parte del popolo ebraico. Quando il Signore chiese ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco, Abramo obbedì senza recriminazioni. Su ordine del Signore, venne poi sacrificato un ariete: il suono dello shofàr ricorda la totale devozione al Signore di Isacco, da cui discese il popolo ebraico.
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