Moishe era un povero sarto ebreo. Durante la settimana vagava, bussando da porta in porta, alla ricerca troppo spesso vana di un lavoretto saltuario. Di venerdì tornava a casa, svuotava il borsellino, donava la decima dei suoi guadagni e consegnava il denaro restante al moglie affinché provvedesse alle necessità della famiglia.

Giunse l’inverno, un inverno gelido e tempestoso. Non si poteva neppure pensare a uscire di casa e per questo Moishe fu costretto a rimanere rinchiuso fra le quattro mura della sua abitazione, senza lavoro e quindi senza denaro.

Nel frattempo la festa di Péssach si avvicinava e la situazione di Moishe non era per nulla migliorata. Come avrebbe fatto a procurarsi ciò di cui aveva bisogno per la festa? Come avrebbe comprato il vino per i quattro bicchieri e le azzime? Moishe si guardava intorno e vedeva soltanto i suoi figli smunti vagare per la casa scalzi e vestiti di stracci, senza neppure l’ombra di un sorriso sul volto... Moishe non poteva più rimanere a girare i pollici, doveva agire. Con incrollabile fede nell’aiuto di D-o, caricò sulle spalle la sacca con il materiale da lavoro e si incamminò per le strade sepolte dalla neve. Poco dopo essere uscito di casa, si fermò davanti a lui la carrozza del governatore della regione, che tornava a casa da una festa, ubriaco fradicio e con una terribile voglia di divertirsi un po’ sul conto del “suo” ebreo.

«Vieni qui, mio caro Moish’ke» lo chiamò, imbracciando il suo fucile da caccia «divertiamoci un po’: ora tu corri dall’altra parte del campo e io cercherò di catturarti, come una buona preda!» e scoppiò in una risata quanto mai sadica.

«La prego, mio illustre governatore...» Moishe tentò di suscitare la compassione del folle.

«Taci, ebreo! Se solo osi esitare a eseguire il mio ordine, ti uccido immediatamente!».

Il povero sarto aveva le gambe paralizzate dalla paura. Lentamente, iniziò a camminare, recitando la confessione, con il cuore infranto al solo pensiero di lasciare moglie e figli al loro destino.

«A quattro zampe» tuonò il governatore «ora sparo!».

«Shemà Israèl» urlò Moishe. Lo sparo eccheggiò nell’aria e Moishe giaceva immobile, sul suolo gelido.

La moglie del governatore non ne poteva più di questo orribile spettacolo: mossa dalla pietà, supplicò il marito di lasciare in pace il povero ebreo, spiegandogli che la paura che gli aveva procurato era stata più che suffciente. «Anzi» aggiunse, contando sull’ebbrezza del marito «dovremmo anche indennizzarlo». Prima che Moishe si fosse reso conto di essere ancora vivo, il governatore lo invitò a salire sulla carrozza. Moishe ora mormorava una preghiera di ringraziamento a D-o per averlo salvato da morte sicura e lentamente si avviò verso la carrozza.

Il governatore si addormentò profondamente dopo pochi istanti e sua moglie ne approfittò per conversare con Moishe, che rispodeva umilmente a tutte le domande che la buona signora gli poneva, aiutandola a ricostruire il triste mosaico della sua vita. Nuovamente mossa da pietà, la donna lo invitò a effettuare un lavoretto a casa sua. Alla fine della giornata, Moishe aveva guadagnato più di quanto di solito non riusciva a racimolare in un mese di lavoro massacrante! Non credeva ai suoi occhi: la ruota della fortuna aveva iniziato a girare a suo favore e quest’anno avrebbe potuto trascorrere un Péssach da re!

Poche settimane prima della ricorrenza, Moishe, molto ottimista, si recò nuovamente al palazzo del governatore, alla ricerca di un nuovo lavoretto di sartoria che gli avrebbe forse permesso di guadagnare ancora qualcosa. Ma questa volta non incontrò lo sguardo benevolo della padrona di casa, bensì quello arcigno del governatore in carne e ossa!

«Salve, Moish’ke! Ancora vivo, eh?».

«Grazie a D-o, grazie a D-o» rispose.

«E come te la cavi, finanziarmente parlando?».

«Sia benedetto D-o, che nutre e mantiene ogni sua creatura!».

«Senti, ebreo: ho l’impressione che ringrazi un po’ troppo il tuo D-o, sai?» esclamò l’uomo, con una punta di collera nella voce. «Piuttosto, girano voci che sia mia moglie a provvedere al tuo sostentamento, più che il tuo D-o a cui sei tanto grato!».

«D-o la ricompensi tante e tante volte tanto!».

«Ancora il tuo D-o? E come ti procurerai ciò di cui hai bisogno per la festa, se mia moglie cessasse di aiutarti?».

«D-o mi aiuterà...»

Ora il governatore era isterico: «Esci da questa casa e non varcare mai più la soglia della mia porta! D’ora in avanti sarà D-o a provvedere al tuo sostentamento!». Il povero sarto fuggì senza esitare per un solo istante... Giunse la vigilia di Péssach, la sera in cui si effettua la ricerca del chamètz, i residui di cibo lievitato. A casa di Moishe non ce n’era la minima traccia, ma neppure l’ombra di una matzà, il pane azzimo... regnava la tristezza...

«Padrone del mondo! Cosa ne sarà di noi?» disse Moishe, volgendo lo sguardo al cielo.

Improvvisamente la porta si spalancò e nell’unica stanza che costituiva l’intera abitazione di Moishe fu gettato un pesante sacco di canapa. Un forte odore di cadavere invase il locale e immediatamente un barlume di terrore scintillò negli occhi disperati di Moishe: «Un’accusa di omicidio rituale! Vogliono accusare gli ebrei di omicidio rituale! Diranno che abbiamo ucciso noi questa persona! Diranno che l’abbiamo fatto per procurarci il sangue di un cristiano da aggiungere all’impasto delle azzime, per poi bruciarci tutti vivi! Non abbiamo un secondo da perdere, dobbiamo liberarcene!». Moishe aveva completamente perso il controllo di sè, ma la moglie riuscì a raccogliere tutto il suo coraggio e si avvicinò al sacco maleodorante per esaminarne il contenuto.

«Guarda, Moishe, una scimmia! È una scimmia morta!» gridò. La paura li abbandonò e riuscirono a tirare un sospiro di sollievo. Quando Moishe afferrò il sacco per gettarlo via di casa, udì un rumore di metallo. Una moneta era caduta sul pavimento, una moneta d’oro! Moishe capì: prese una lama affilata, squarciò il ventre dell’animale e scoprì un tesoro inestimale di monete d’oro.

Mai a casa di Moishe si era trascorsa una festa di Péssach come quell’anno: il vino più pregiato colava abbondante nei calici dei convitati, le migliori matzòt e cibi raffinati abbondavano sulla tavola regalmente imbandita. Ma improvvisamente, in mezzo al pasto festivo, il Sèder, la porta si spalancò, mostrando la sagoma imponente del governatore accompagnato da sua moglie, venuto a “visitare” Moishe nella speranza di trovarlo in una casa più buia e più povera che mai, senza cibo: sarebbe stato del tutto normale, dopo che l’aveva scacciato da casa sua. Ma alla vista di tutta quella abbondanza, il governatore non riusciva a credere ai suoi occhi e, balbettando, interrogò Moishe per sapere come si era procuarato tutto ciò. Moishe gli spiegò l’accaduto nei minimi dettagli e il governatore rimase senza parole: era stato lui a ordinare che la scimmia con cui si dilettava, morta improvvisamente, venisse gettata in casa dell’ebreo, come “regalo” per Péssach. Solo allora capì ciò che era successo. Sicuramente la scimmia aveva visto il suo padrone verificare l’autenticità delle monete mordendole.

Come ogni scimmia che si rispetti, aveva imitato il padrone, ingoiando una notevole quantità di monete, che poi avevano causato la sua morte. E il governatore, per divertirsi una volta di più sul conto dell’ebreo, aveva deciso di far gettare il cadavere di questo animale in casa di Moishe...

«Il tuo D-o ti ha aiutato davvero!» ammise il governatore.

«E dopo la festa, sei nuovamente invitato a lavorare da noi...» aggiunse la moglie.