Il Maharàl si muoveva con cautela nella grande sala da pranzo della sua abitazione, con un sacchetto in una mano e una candela accesa nell’altra. Era la sera prima di Pessach e gli ebrei stavano cercando le ultime tracce di cibi lievitati negli angoli delle loro case. È abitudine nascondere dieci pezzettini di pane in vari punti della casa, proprio per questa circostanza che, per alcuni ebrei, non è altro che un modo per dare formalità alle pulizie accurate condotte nei giorni precedenti.

Per il Maharàl, però, era una seria responsabilità. Anche dopo aver trovato i dieci pezzetti di pane, continuava a cercare come se la casa non fosse stata pulita affatto.

Dietro di lui c’erano il genero, rav Katz, il fedele servitore, reb Avrahàm Chayìm, e molti membri illustri della comunità ebraica di Praga. Mentre girava per la grande stanza, era circondato dal più assoluto silenzio.

Era un momento molto serio. Il lievito, come aveva spiegato spesso, simboleggiava l’eccesso, l’andare oltre e al di là delle cose necessarie.

Non c’era nulla di male nel cibo e nelle ricchezze, ma non bisognava correre il rischio di diventare schiavi dell’aspetto materiale della vita perdendo in questo modo la libertà spirituale.

Pessach celebra molto di più rispetto alla liberazione dalla schiavitù fisica, egli insegnava, simboleggia anche la liberazione degli ebrei dalla schiavitù spirituale, dal rischio di assimilazione in una società eccessivamente materialistica. Prima della festa, quindi, l’ebreo fa un esame della sua anima e della sua fede, per sbarazzarsi del "lievito" presente sia nella vita spirituale sia in quella fisica. Per gli otto giorni che seguono, mangia soltanto cibi non lievitati e rinfresca la mente, attribuendo alla sua esistenza le giuste priorità.

Dopo una lunga e silenziosa ricerca, il Maharàl si voltò verso reb Avrahàm e gli fece segno di dargli il libro di preghiere per recitare secondo il rito:

Tutto il lievito che si trova in mio possesso, che non ho visto o che non ho eliminato, sarà reso nullo e diventerà come la polvere della terra.

Reb Avrahàm glielo porse tenendo invece la candela, in modo che le sue mani fossero libere. Il Maharàl, avvicinandosi alla luce, sfogliò le pagine, finché trovò quella che cercava, quando, improvvisamente, la fiamma si spense. Conosceva la preghiera a memoria, ma era sempre stata sua abitudine leggerla.

"Reb Avrahàm – disse sottovoce – per favore, accenda nuovamente la candela".

L’anziano aiutante riaccese la candela. Quando tornò nel punto in cui tutti erano riuniti, il Maharàl si schiarì la gola e si preparò a recitare la preghiera.

La fiamma si spense nuovamente.

Tutti si guardarono sorpresi. Il Maharàl rimase in silenzio, mentre reb Avrahàm andava ad accendere un’altra volta la candela. Non appena l’ebbe fatto, però, per la terza volta la candela si spense. Tentò ancora, ma senza successo. Finalmente il Maharàl, profondamente turbato, ordinò a reb Chayìm di restare presso la lampada grande e di leggere la preghiera a voce alta.

"Cominci a leggere – gli disse – e io ripeterò ogni sua parola. Sarà come se io stessi leggendo direttamente dal libro di preghiere".

Reb Chayìm iniziò a recitare la preghiera lentamente e, parola dopo parola, il Maharàl la ripeteva.

"Tutto il lievito… ".

"Tutto il lievito… " ripeté il Maharàl.

"Che si trova… ".

"Che si trova… ".

"Nel Palazzo dei Cinque... ".

"Nel… ".

Il Maharàl si bloccò, poi guardò la fragile figura di reb Avrahàm dall’altra parte della stanza: "Reb Avrahàm – sbottò – per favore, legga correttamente!".

Il vecchio servo rabbrividì per la paura e guardò il Maharàl. Le sue labbra tremavano ed egli non era in grado di parlare.

"Nu! Per favore – lo incalzò il Maharàl – cominci da capo e legga correttamente".

Reb Chayìm riprese dall’inizio: "Tutto il lievito… ".

"Tutto il lievito… " ripeté il Maharàl, tenendo gli occhi chiusi profondanemte concentrato.

"Che si trova… ".

"Che si trova… ".

Ci fu una pausa che sembrò lunghissima.

"Nel… – balbettò reb Chayìm – nel… nel Palazzo dei Cinque!".

Il Maharàl si irritò e si spaventò al tempo stesso. Si avvicinò a reb Avrahàm Chayìm, che stava tremando, e vide il volto del vecchio impallidire.

Prendendogli il libro dalle mani, lesse lui stesso le parole della preghiera. Anche il suo viso cambiò colore, mentre le sue mani iniziarono a tremare senza controllo. Rilesse le parole e, davanti ai suoi occhi, esse tornarono nella forma originale.

"Amici miei – disse ai suoi ospiti – sta succedendo qualcosa di strano. Questo è sicuramente un messaggio Divino, inviato con lo scopo di metterci in guardia da un pericolo. La candela si è spenta più volte, come se ci stesse avvertendo che i nostri nemici stanno ancora complottando contro di noi, per estinguere la fiamma di Israel! Per favore, ognuno ritorni a casa propria immediatamente e ci rimanga!".

Gli ospiti mormorarono tra loro increduli, ma obbedirono senza porre domande. Il Maharàl chiese a reb Avrahàm Chayìm e al genero, rav Katz, di rimanere.

Al Palazzo dei Cinque!

"Ha idea di quale sia il pericolo?" chiese rav Katz.

"Credo di sì, forse tutto sta diventando chiaro".

"Non capisco, Rebbe".

"Riguarda – spiegò il Maharàl – il mio sogno. Lo scorso Shabbàt ho avuto un incubo che non sono stato in grado di interpretare. La sinagoga era piena e noi tutti stavamo pregando, quando improvvisamente fiamme altissime si sono propagate dal Palazzo dei Cinque penetrando nel tempio attraverso le finestre. Tutta l’assemblea urlava impotente, mentre le fiamme inghiottivano i presenti, le cui voci mi hanno svegliato".

Il Maharàl percorse la stanza, picchiettando il palmo della mano con il dito indice.

"Il Palazzo dei Cinque – mormorò tra sé e sé – là c’è qualcosa che costituisce una minaccia per noi e là dobbiamo andare per eliminare ogni briciola di lievito. In altre parole – continuò poi ad alta voce rivolto ai suoi interlocutori sbalorditi – il palazzo nasconde qualche pericolo".

Il Palazzo dei Cinque un tempo era abitato da un re che trascorse la vita isolato. Poiché era un uomo religioso, però, si fece costruire segretamente una galleria sotterranea che conduceva fino alla Chiesa Verde.

Il Maharàl si sentì mancare. Sicuramente il prete aveva architettato la sua vendetta per la scomparsa della figlia di reb Mìchle Berger. Senza dubbio era a conoscenza del tunnel segreto e lo aveva utilizzato per la sua ultima cospirazione.

"Dobbiamo recarci là immediatamente" disse il Maharàl, riprendendosi. Reb Avrahàm Chayìm cominciò a tremare tormentando la lunga barba bianca con gesti rapidi.

"Dove dobbiamo andare?" chiese.

"Al Palazzo dei Cinque, reb Chayìm. Poiché dobbiamo esaminare la galleria, c’è qualcosa che dobbiamo scoprire ed eliminare o saremo in pericolo".

"Ma le grotte sotterranee del castello – spiegò reb Chayìm – sono abitate da fantasmi. Per secoli è circolata la voce che di notte vi si aggirano i demoni e vi danzano caproni. Se proprio dobbiamo andarci, aspettiamo almeno che faccia giorno".

"Non possiamo aspettare – replicò il Maharàl – la comunità è in pericolo, dobbiamo agire. Il Talmùd insegna che a colui che intraprende un compito per il bene, e secondo quanto è scritto nella Torà, non può essere fatto alcun male. Nonostante possa essere vero che alcune persone sono state ferite laggiù o sono state attaccate da forze demoniache, dobbiamo fare affidamento sui meriti della comunità ebraica per conto della quale agiamo. Infine, siamo stati avvisati direttamente dal Cielo che c’è qualcosa di strano, per cui D-o ci proteggerà certamente".

"Rebbe – chiese a bassa voce rav Katz – vuole che venga con lei?".

"No, devi tornare da tua moglie e aiutarla negli ultimi preparativi per la festa, ma non dire a nessuno dove stiamo andando. Se per qualche ragione non dovessimo essere tornati entro domani mattina, almeno tu saprai dove siamo".

Rav Katz si volse per andarsene.

"Aspetta! Mentre passi davanti al tribunale rabbinico – lo fermò il Maharàl – ordina a Yòssele Golem di venire immediatamente nel mio studio e di portare con sé tre torce".

Il Gòlem e si alzò per andare a compiere il suo dovere.

Era appena passata la mezzanotte, quando i tre sgusciarono nelle viuzze laterali che conducevano ai ruderi del Palazzo dei Cinque. Le strade erano vuote, la città dormiva. Arrivarono al palazzo e, dopo essersi intrufolati attraverso un’apertura nel muro in rovina, si ritrovarono davanti a una scalinata che conduceva nei sotterranei.

La discesero lentamente e, giunti in fondo, il Maharàl ordinò al Gòlem di forzare il chiavistello arrugginito e di togliere le pesanti ragnatele intorno alla porta. Il Gòlem colpì il catenaccio con i pugni, fino a che non cedette e la porta non si aprì leggermente. Con un calcio delle sue gambe potenti, la spalancò e i tre entrarono.

Il Maharàl cominciò a esplorare con cautela l’ambiente, seguito da reb Chayìm. Improvvisamente, li investì un forte vento che fece spegnere le torce, contemporaneamente si sentirono ululati di cani provenire dal fondo della cantina. Reb Chayìm si irrigidì; il Maharàl, invece, rimase calmo e riaccese le torce con la pietra focaia. Il vento, però, soffiò ancora, spegnendo nuovamente le fiamme, mentre l’ululato crebbe di intensità, facendo aumentare il terrore del servo.

Il Maharàl si tenne vicino reb Avrahàm Chayìm per cercare di alleviarne la paura e lo esortò a pregare insieme a lui. I due recitarono il Salmo 91 accompagnati dal lamento ossessionante che riempiva la cantina, non cambiò nulla.

Lo recitarono una seconda volta e il rumore cessò. La terza volta, il vento si calmò ed essi furono in grado di riaccendere le torce. Il Maharàl continuò ad addentrarsi nel sotterraneo, quando improvvisamente pesanti sassi cominciarono a cadere attorno a lui, colpendolo sulle spalle.

Rapidamente indietreggiò fino alla porta, portando con sé reb Avrahàm, e si allontanò dall’entrata mettendosi al sicuro sulle scale. Il Gòlem, invece, rimase incolume in mezzo ai sassi che cadevano e aspettò che il Maharàl gli desse istruzioni.

"Yòssele – gridò infatti il Maharàl cercando di sovrastare il rumore – continua a cercare da solo, perché neppure i demoni ti possono fare del male. Se trovi qualche prova di un’accusa di sangue, portamela immediatamente".

L’Annullamento del Chametz

Il Gòlem riprese ad avanzare, tenendo la torcia accesa davanti a sé e osservando attentamente l’ambiente che lo circondava. Quando scorse il baule, vi si avvicinò e, facendo leva con il manico della torcia, aprì il coperchio. All’interno vide il cadavere di un bambino, avvolto in un lacero scialle da preghiera e circondato da bottiglie contenenti un liquido rosso scuro. Con le sue grandi mani sollevò il corpo e il cesto, quindi portò tutto al Maharàl.

Quando vide il macabro ritrovamento, il Maharàl volse la testa disgustato.

"Un bambino innocente! È spaventoso e nauseante. Yòssele – mormorò – prendi il corpo così com’è e portalo attraverso la galleria fino alla cantina della Chiesa Verde, dove Taddeo tiene il suo vino. Nascondilo tra le botti, poi torna qui immediatamente".

Il Gòlem sollevò nuovamente il corpicino e ritornò sui suoi passi, fino alla pesante porta di legno che si trovava dall’altra parte della cantina. La aprì servendosi ancora dell’impugnatura della torcia e percorse il corridoio buio e tortuoso che conduceva alla chiesa. Giunto in fondo entrò nel luogo in cui veniva conservato il vino, spostò alcune botti e vi nascose dietro il cadavere. Portato a termine il suo compito, tornò attraverso il tunnel nel punto in cui il Maharàl e reb Avrahàm Chayìm lo aspettavano.

I tre ruppero le bottiglie contenenti il sangue e il Gòlem fece a pezzi il cesto. Il Maharàl ordinò poi a Yòssele di fare una buca nel terreno. Inginocchiato per terra e a mani nude, il Gòlem scavò il duro terreno, fino a quando non ebbe preparato una fossa ampia e profonda in cui vennero nascosti i resti delle bottiglie e del cesto; infine la ricoprì.

I tre tornarono al livello della strada. Il rabbino ringraziò reb Avrahàm Chayìm per aver sopportato la dura prova e lo benedisse assicurandogli molti anni ancora di vita e di salute, ma gli raccomandò di non rivelare a nessuno quello che era successo.

Alle dieci del mattino seguente, gli ebrei correvano per le vie del loro quartiere in preda al panico e alcuni si diressero verso la casa del Maharàl per avvertirlo che un grande numero di soldati sfilava per le strade, con padre Taddeo e il capo della polizia in testa. Improvvisamente, l’ufficiale fermò il suo cavallo e alzò la mano destra. Le truppe reagirono separandosi in gruppi di due per perquisire le case del quartiere. I soldati cominciarono a setacciare ogni angolo, ignorando le proteste. Padre Taddeo e il capo della polizia proseguirono; giunti davanti alla casa del Maharàl, smontarono da cavallo. Il rabbino era in piedi sulla porta e stava conversando con alcuni membri della comunità che erano venuti a cercare aiuto da lui durante l’incursione.

"Aspettate – disse a chi protestava – ecco che arriva il capo della polizia in persona. Buon giorno" salutò l’ufficiale.

"Buon giorno, rabbi Löwy" rispose l’altro.

"Forse lei può spiegarmi la ragione della presenza di tanti soldati" chiese il Maharàl, evitando di guardare il ghigno vendicativo di padre Taddeo.

"Sì – rispose l’ufficiale – naturalmente. Stiamo facendo una ricerca".

"Se siete venuti a darci una mano a cercare i cibi lievitati – rise il Maharàl – sareste dovuti venire ieri sera".

L’ufficiale sorrise, sebbene non avesse compreso le parole del rabbino, mentre padre Taddeo continuava a fissare il Maharàl, che, infine, volse lo sguardo verso di lui, dicendo: "Tutto il lievito che è stato trovato è stato portato via".

Il sorriso di padre Taddeo si spense. Cosa voleva dire il Maharàl? Sicuramente il commento era stato rivolto a lui. No, no, era impossibile. Non era assolutamente possibile che qualcuno avesse trovato il cadavere. Deglutì a fatica e distolse lo sguardo con imbarazzo.

"Non capisco, rabbino" protestò l’ufficiale.

"Chieda a questo saggio prete che si trova accanto a lei. Ha molta familiarità con i rituali ebraici, sia quelli che pratichiamo, sia quelli che non pratichiamo".

"Parla per enigmi, rabbino – disse il capo della polizia – e ora non ho tempo per queste cose. Stiamo cercando un bambino morto".

"Un bambino morto? Vuol dire che c’è stata un’altra accusa di sangue?" chiese il Maharàl.

"Sono convinto dell’assurdità della faccenda quanto lei, ma non posso fare diversamente: la ricerca deve continuare. Sicuramente non troveremo nulla, ma devo andare avanti, spero che lei mi capisca".

"Sì – lo rassicurò il rabbino – la capisco perfettamente. Per favore, entri e cerchi anche in casa mia".

L’ufficiale entrò accompagnato da una scorta di soldati e da padre Taddeo. Frugarono in ogni stanza della casa, perfino negli armadi, in cantina e in soffitta. La perquisizione durò fino al tardo pomeriggio e alla fine l’ufficiale, stanco, sospese la ricerca e riportò le sue truppe verso il quartiere cristiano. Padre Taddeo aveva cavalcato pazientemente tutto il giorno, in attesa del momento opportuno.

"Vostra eccellenza – disse infine sorridendo al capo della polizia che si trovava al suo fianco – se non ha nulla in contrario, vorrei darle un consiglio. Penso che dovremmo cercare in un altro posto".

"Dove?".

"Al Palazzo dei Cinque, signore".

L’ufficiale fece fermare il cavallo arrestando, così, tutto il gruppo che procedeva alle sue spalle: "Che cosa? In mezzo a quelle rovine infestate dai fantasmi? Ma per favore – esclamò – chi avrebbe mai il coraggio di andarvi?".

"Come ha detto il rabbino – continuò imperterrito padre Taddeo – io ho molta famigliarità con gli ebrei e i loro rituali. Secondo le mie conoscenze, storicamente documentate, essi hanno sempre perpetrato l’uccisione rituale di cristiani nei luoghi più nascosti e quei ruderi disabitati sono il posto ideale".

L’ufficiale non rispose. Evitando lo sguardo del prete, si voltò e fece cenno alle truppe di seguirlo.

I cavalli sollevarono nuvole di polvere mentre galoppavano verso il Palazzo dei Cinque. Si avviarono rapidamente alla scala e aprirono con violenza la porta della cantina.

Taddeo entrò per primo ed emise un sospiro di sollievo quando vide il baule intatto, con il coperchio abbassato. I soldati perlustrarono la stanza fiocamente illuminata, mentre l’ufficiale si avvicinava al prete, in piedi accanto alla cassa.

"Cosa c’è, padre? Pensa forse che vi sia un cadavere?".

"Potrebbe benissimo esserci. Sembra l’unico posto in cui si possa nascondere qualcosa".

Il capo della polizia ordinò di sollevare il coperchio del baule con le lance. Il prete aiutò, poi diede un’occhiata all’interno e indietreggiò di colpo, il volto pallido per il terrore: il cadavere era sparito, così come le bottiglie di sangue! L’ufficiale dovette sostenerlo affinché non cadesse.

"Cosa c’è, padre Taddeo, non si sente bene?".

Il prete pensò rapidamente e ricordò i resti dello scheletro di un grosso ratto che erano rimasti là: "Niente, si tratta solo di quello scheletro".

L’ufficiale guardò nel baule e scoppiò a ridere: "Non è altro che un topaccio di cui non sono rimaste che le ossa".

I soldati scortarono il capo della polizia fuori dalla cantina, fino alla strada. Taddeo li seguì nervoso.

Quando rimontarono a cavallo, una folla di ebrei si era radunata davanti alla Grande Sinagoga dall’altra parte della strada per conoscere i risultati della ricerca. Il sorriso sulla faccia del prete era ormai sparito, sostituito da un’espressione tesa e sconvolta. Dov’era finito il corpo, continuava a chiedersi. Chi l’aveva scoperto? Come era stato possibile? Dove erano le bottiglie?

Disse all’ufficiale che si sentiva stanco e prossimo allo svenimento e si avviò verso la chiesa. Intanto il piccolo esercito stava lentamente lasciando il quartiere ebraico e scomparve ben presto dalla vista. Il Maharàl, allora, ordinò ai suoi aiutanti di diffondere la voce tra gli ebrei che erano appena stati salvati da una possibile accusa di sangue, grazie a un miracolo Divino.

"Dite a tutti: "la trappola è stata rotta e noi siamo scappati"" raccomandò loro.

Gli ebrei ballarono per le strade e continuarono i loro preparativi per Pessach, con una gioia e un entusiasmo che non provavano più da molti anni.

Taddeo si rinchiuse nel suo studio, sempre più agitato per il fallimento del suo complotto e per l’incertezza del suo destino. Le parole del Maharàl gli riecheggiavano ancora nella mente: "Tutto il lievito che è stato trovato è stato portato via".

(Tratto dal libro Il Golem di Praga di Gershom Winkler, LULAV 2000)