Erano quattro giorni prima di Pèsach, l’11 Nissan 2006. Con il mio amico Zevi Shusterman della yeshivà Chabad di Melbourne partimmo a Darwin, la capitale del territorio settentrionale dell’Australia per andare a trovare ebrei che vivono nelle piccole cittadine della regione.

Il nostro compito era di ricordar loro che la festa si avvicinava e di invitarli, qualora fosse possibile, a partecipare ad un sèder comunitario. Per far ciò, occorreva innanzitutto metterci in contatto con la cinquantina di ebrei individuati nella città. L’ultimo indirizzo che avevamo trovato era il 30/55 Parap Road: era un edificio insipido, occupato, o per meglio dire occupato da abusivi, disoccupati e altri disadattati, tra i quali molti facevano uso di sostanze illecite. Sormontammo i nostri sentimenti e preconcetti, e chiedemmo a un giovanotto se conosceva Joseph de Becker, un ebreo della città ci aveva raccontato che aveva fatto la conoscenza di questo signore per puro caso negli uffici della posta. Il giovanotto ci indicò l’ultimo piano dove in effetti viveva questo signor Joseph.

Con la nostra confezione di matzòt shemuròt (gli azzimi), bussammo alla porta che aveva la mezuzà e annunciammo “signor Joseph! Le abbiamo portato le matzòt!” Un uomo anziano, palesemente stanco di vivere, aprì la porta con le lagrime agli occhi. Prima di aprire bocca ci palpò le braccia: “non riesco a crederci!” Ripeté diverse volte squadrandoci con incredulità. Eravamo un po’ intimoriti, non sapevamo come reagire. Poi si calmò un po’ e ci invitò ad entrare e a sederci intorno al tavolo.

E cominciò a parlare:

«Sono sopravvissuto ad Auschwitz. Dopo la guerra, sono scappato da quell’Europa furiosa per andare il più lontano possibile. Mi sono stabilito qui in Australia, a Perth. Sposai una non ebrea e abbiamo avuto un figlio. Purtroppo i miei affari commerciali crollarono. In seguito divorziammo e io personalmente non avevo più niente da fare a Perth. L’unica ragione di vivere è mio figlio che fa servizio di leva nell’esercito australiano la cui base sta proprio qui a Darwin. Mi sono stabilito qui in questa casa popolare. Piano piano ho perso il contatto con il mondo esterno, non ho internet, niente posta elettronica e neanche un telefono. Esco da casa raramente e solo per le piccole compere indispensabili. Neppure mio figlio viene quasi mai a trovarmi.

Poco tempo fa mi sono ricordato che quando ero piccolo festeggiavamo una festa ebraica in marzo o aprile. I miei ricordi sono vaghi, so che non mangiavamo pane bensì una specie di cracker piatti. Ultimamente sono proprio queste reminiscenze che sono venute a galla. Pensieri che mi hanno depresso invece di rallegrarmi. E poi, ieri sera avevo difficoltà ad addormentarmi e quando mi sono finalmente addormentato, ho sognato che due rabbini mi portavano questi cracker per celebrare la ricorrenza. Ed è per questo che quando avete bussato alla mia porta e vi ho visti, credevo di avere delle allucinazioni e vi ho toccato per essere sicuro che foste reali, non immaginari».

Io e il mio amico rimanemmo di stucco. Il racconto di Joseph era davvero commovente. Rimanemmo alcune ore a parlare con lui e ad ascoltare questo uomo dimenticato da tutti. Pianse di gioia quando l’aiutammo a mettere i tefilìn e a pronunciare lo Shemà Israèl di cui si ricordava vagamente le parole. Prima di prendere congedo, gli lasciammo, oltre alle matzòt, diversi dépliant che avevamo con noi affinché potesse imparare da solo alcuni principi fondamentali dell’ebraismo. Tra i dépliant ce n’era uno intitolato “Tributo la Rebbe” che conteneva alcuni articoli sul Rebbe di Lubàvitch accompagnati da alcune fotografie.

Joseph ci accompagnò fino al pian terreno e ci ringraziò con tutto il cuore per la nostra visita che l’aveva rappacificato con la vita.

Un anno dopo, ritornai a Darwin per ritrovare tutti gli ebrei che avevamo contattato l’anno precedente. Dopo la nostra visita, informammo loro dell’esistenza di Joseph e in effetti fecero il loro possibile per aiutarlo. E così appresi che la sua situazione generale era migliorata. Quando entrai a casa sua, mi abbracciò calorosamente e mi raccontò quanto la comunità ebraica di Darwin fosse stata premurosa con lui.

Notai che aveva tappezzato il muro con le foto del Rebbe che aveva ritagliato dalla brochure che gli demmo l’anno prima. Evidentemente aveva considerato queste fotografie particolarmente belle.

Ma egli mi spiegò: «Si ricorda del mio sogno? È grazie a questo uomo che ho ripreso contatto con l’ebraismo dopo così tanti anni di separazione ed è grazie a lui che mi sento molto meglio. Era il minimo avere una sua foto sul muro».