Nella tradizione ebraica si trovano a volte dei piccoli riti che racchiudono però grandi significati. Tra questi un posto particolare spetta alla cerimonia della Havdalà, che fin dall'antichità viene recitata con solennità da tutto il popolo ebraico, seppur con leggere varianti.

Il verbo BaDàL (dividere, separare), dal quale deriva appunto il termine Havdalà, è usato per la prima volta nella Torà in Bereshìt (1, 4) in riferimento alla separazione tra la luce e il buio voluta da D-o nel corso del primo giorno della creazione. Per quanto l'interpretazione più comune reputi che con tale scissione si decretasse la nascita del giorno e della notte, da una lettura più attenta della Scrittura si potrà ben notare che della creazione della luce e del buio, e dunque della loro divisione, già si parla nella Torà in Bereshìt 1, 2-3, per cui il versetto in questione diverrebbe così un inutile reiterazione di un fatto appena narrato.

I Maestri del Midràsh e del Talmùd (Bereshìt Rabbà III 6, Talmùd Chaghigà, 12a) ritennero perciò che il senso del versetto dovesse in realtà essere un altro: D-o vide che gli empi non sarebbero stati degni di godere della luce e perciò la pose in disparte per i giusti, in vista del mondo futuro.

Le tenebre, dunque, non rappresenterebbero qui la notte o un oscurità dovuta a un fenomeno naturale, ma la fioca luce rimasta nel mondo terreno dopo che D-o ne separò una parte per illuminare con intensità il mondo futuro destinato agli tzaddiqìm.

Ma per la tradizione ebraica (Talmùd Berakhòt, 57b) un po' di questa luce ritorna nell'animo dell'ebreo alla vigilia di ogni Shabbàt, per permettergli di assaporare almeno per un giorno alla settimana una piccola parte della vera beatitudine che il Creatore riserva per l'`Olàm Habbà.

Per sei giorni l'uomo ha dovuto compiere ogni tipo di opera creativa nel mondo della materia; cessando ogni attività produttiva egli libera se stesso dalla schiavitù del lavoro e può così dedicare un intero giorno allo stuD-o alla meditazione ed al riposo.

Di Shabbàt l'individuo, che per tutta la settimana è rimasto schiacciato dalle macchine e dalle produzioni lascia il posto a un uomo nuovo che recupera la vera dimensione dell'essere.

Alla fine della festa però, la vita normale ricomincia e ogni uomo deve separarsi da quella atmosfera di pace che lo aveva accompagnato per tutta la giornata e ritornare alla propria consueta occupazione. Ma lo Shabbàt appena trascorso non può non aver lasciato nell'animo ebraico un indelebile segno che influenzerà il modo di pensare e di agire dell'ebreo durante l'intera settimana lavorativa.

Insomma, lo Shabbàt non passa come un giorno qualunque; al contrario, esso dona a colui che lo apprezza e lo osserva in tutta la sua sacralità una luce di serenità che continuerà anche dopo la sua conclusione; è proprio a questo cambiamento interiore che ognuno di noi fa riferimento attraverso il rito della Havdalà.

Approfondimento

Nel momento in cui accendiamo la candela e recitiamo la benedizione esprimiamo in modo simbolico che quella luce che pochi istanti prima era nel nostro cuore e nel nostro spirito, può essere materializzata, esternata attraverso le nostre azioni tese sempre e comunque a migliorare il rapporto con noi stessi, con coloro che ci sono vicini e a vivere in modo vivo e coinvolgente la nostra tradizione ebraica.

Le fonti rabbiniche ci potranno aiutare a capire tale pensiero. Secondo l'Aggadà, l'accensione del fuoco fu il primo lavoro compiuto da Adamo alla fine del primo Shabbàt della creazione. Fino ad allora, nel mondo aveva continuato a brillare una forte luce, ma con la fine della festa l'uomo rimase improvvisamente al buio e fu preso da una grande paura e dallo sconforto. D-o dunque gli concesse l'intelligenza ed egli raccolse due pietre che percosse una contro l'altra fino a che non ne scaturì il fuoco la cui luce rincuorò lo spirito di Adamo che sentì il bisogno di recitare una benedizione di ringraziamento (Talmùd Pesakhìm, 54a).

L'oscurità e lo sconforto possono essere qui interpretati come la paura dell'uomo che dopo il sacro riposo dello Shabbàt si vede nuovamente proiettato nella buia vita di tutti i giorni. Ma anche allora egli non deve pensare di essere abbandonato a se stesso poiché D-o continuerà ad aiutarlo e a confortarlo di fronte a qualsiasi difficoltà. A lui è comunque lasciato il compito di realizzare delle attività creative che non devono mai contrastare il volere divino.

Così ancora oggi attraverso la Havdalà, nel momento, cioè, in cui ogni ebreo si separa da quella luce che lo caratterizza nel corso dello Shabbàt, egli si prepara al rientro nel mondo della produzione proclamando con l'azione e con la parola (l'accensione del lume e la relativa benedizione) che, come per Adamo, tutto il suo lavoro nel corso dell'intera settimana, grazie all'influenza dello Shabbàt, sarà sempre accompagnato dall'intento e dal desiderio di completare positivamente l'opera della creazione che, come vuole il versetto della Torà, D-o ha solo iniziato affinché l'uomo la elaborasse nel corso della storia (Bereshìt 2, 3).

Il precetto della Havdalà: la sua origine

Le parole del Ràmbam bene esprimono quella che ormai da secoli sembra essere la posizione più accettata dall'ebraismo:

Il precetto numero 155 ci comanda di recitare all'entrata e all'uscita di Shabbàt delle frasi che ricordino la grandezza e l'onore di quel giorno e la sua differenza dagli altri giorni che lo precedono e lo seguono; esso è espresso dal detto di colui che va esaltato: Ricorda il giorno del sabato per santificarlo (Shemòt 20, 8), cioè: ricordalo con il ricordo della santificazione e della grandezza e questo è il precetto del qiddùsh.

I Maestri hanno detto esplicitamente: Ricordalo con il vino (Talmùd Pesakhìm, 106a); e inoltre hanno detto: Santificalo quando entra e santificalo quando esce, cioè anche la Havdalà è una parte del ricordo del sabato, che ci è stato comandato.

Per quanto concerne l'usanza nata nel tardo meD-oevo di recitare la Havdalà nella sinagoga dopo la preghiera del sabato sera, ciò è dovuto alla necessità di dare anche ai poveri o a quanti erano sprovvisti di vino kashér la possibilità di eseguire il rito nel modo prescritto dai maestri. Al giorno d'oggi, non essendo più il vino kashér una bevanda rara e pregiata come un tempo, è bene che anche chi ha assistito alla cerimonia della separazione al Bet Hakenésset (sinagoga) la ripeta nella propria abitazione per terminare assieme ai familiari il giorno dello Shabbàt con delle benedizioni e con canti di gioia.

pronunci la benedizione sulla luce.

Si termini dunque, la cerimonia della Havdalà recitando la quarta benedizione dopo aver nuovamente afferrato la coppa di vino con la mano destra. Il vino dovrà essere bevuto solo