Quando mio nonno Israel studiava alla yeshivà di Nevel in Russia Bianca, uno dei suoi compagni di classe più giovane di lui aveva una matita e un quaderno ai quali teneva tantissimo, in quanto ogni giorno se ne serviva per scrivere una lettera ai suoi genitori. Un giorno, un ragazzo più grande notò il bimbo occupato a scrivere coscienziosamente; gli strappò di mano la matita e fuggì. Il bambino si mise a piangere amaramente per il furto di questo oggetto tanto importante dal quale dipendeva il contatto coi suoi genitori. Israel vide la scena, corse dietro al furfantello, riprese la matita e avvertì il ladro di non provarci mai più, se non voleva farsi picchiare. Il ragazzo capì subito la lezione e il bambino derubato asciugò le sue lacrime e non fu mai più molestato.
In seguito, dopo la sua bar mitzvà mio nonno fu mandato dai suoi genitori alla yeshivà della cittadina di Lubavitch, affinché divenisse più serio, cosa che non era scontata visto l’aneddoto seguente: il Rebbe Shalom Dov ber, quinto Rebbe di Lubavitch, abitava nello stesso edificio che ospitava la yeshivà. A parte gli studenti, c’era anche … una capra il cui buon latte serviva a nutrire gli allievi come i professori. La capra aveva una lunga barbetta, dunque fu soprannominata “boroda” (“la barbuta” in yiddish). Uun giorno, Israel era riuscito a procurarsi un bicchierino di vodka e uscendo dalla yeshivà vide la capra nel cortile, le offrì qualche sorsetto della bevanda alcolica, che ebbe su di essa gli stessi effetti che ha sugli esseri umani: la capra si mise a ballare, a girare belando “bee bee..”. Attirati dagli strani versi, altri alunni uscirono dalla yeshivà e circondarono allegramente Boroda, saltellando anche loro. Ma uno dei professori udì il baccano, vide la scena e riportò il tutto alla direzione dell’istituto, e Israel fu espulso. Ma uscendo dall’ufficio dichiarò pacatamente a se stesso che egli rifiutava di tornare dai suoi genitori.
E dove sarebbe andato allora? Non ne aveva la minima idea. Errando per le viuzze del villaggio, decise di entrare nella casa di una delle famiglie che ospitava, a pagamento, gli studenti della yeshivà. Entrò, appoggiò la sua roba, e annunciò che si sarebbe installato lì. Non gli fecero domande e per ben due settimane poté, diciamo… riflettere. Alchè il padrone di casa mandò la fattura alla yeshivà.
Quando i direttori capirono le manovre del ragazzo, lo convocarono ed Israel spiegò che in realtà non aveva avuto il coraggio di tornare a casa sua e di causare tanta pena ai suoi genitori. Riguardo al suo soggiorno “all’hotel” – ammesso che ce ne fosse stato uno a Lubavitch, disse con aplomb: «Ho fatto risparmiare tanto denaro alla yeshivà. Se non avessi avuto dove dormire, sarei rimasto per strada e sarei morto di freddo. Se non avessi avuto cibo, sarei morto di fame. La yeshivà sarebbe dunque stata obbligata a seppellirmi, a comprare una bara, un posto al cimitero e in più a mandare un telegramma ai miei genitori! Una bella somma tutto sommato!» E, riguardo a Boroda, la sua risposta era tutta pronta: «È vero, all’inizio mi sono comportato male, non avrei dovuto, ma ho imparato una lezione: il Rebbe, gli alunni e la capra vivono nello stesso luogo. Gli alunni guardano il Rebbe e la capra guarda il Rebbe. Dobbiamo imparare dal Rebbe mentre lo osserviamo, altrimenti non valiamo più di una capra!» I responsabili della yeshivà scoppiarono ridere, poi assunsero di nuovo un’aria seria ma non per molto, ben presto la ridarella tornò. Israel di Nevel era un burlone ma era vivace di spirito e intelligente, e si era notato quanto si prendeva cura dei compagni di scuola. Fu di nuovo reintegrato nella yeshivà.
Anni dopo, mentre Israel ballava a Simchat Tora con gli altri chassidim, colui che era stato l’amministratore della yeshivà all’epoca in cui lui era studente e che non era altro che il sesto Rebbe di Lubavitch, appoggiò affettuosamente il suo braccio sulla sua spalla e gli bisbigliò: «Sei un buon figliolo per me».
In seguito Israel fu scelto dal padre di Hanna Pevzner, rav Mordechay, che cercava per sua figlia un vero chassid come sposo. Si sposarono in tutta semplicità ed ebbero tanti figli, nipoti e bisnipoti. La loro vita fu costellata da difficoltà a causa di Stalin e del suo regime totalitario con le sue leggi contro la fede e soprattutto contro la fede ebraica. Sempre molto determinato, Israel continuava ad insegnare clandestinamente la Torà ai bambini. Per Hannah, come per molte altre donne, l’unico momento di pausa era quello che seguiva l’accensione delle candele di Shabbàt.
Le mani di Hannah! Tutta la settimana aveva pulito in ginocchio il pavimento dell’unica stanza del loro alloggio, sciacquato la biancheria che era in ammollo nelle tinture con altri liquidi corrosivi, sbucciato e mondato le verdure non più tanto fresche, cucito china su una vecchia macchina, piantato e annaffiato il suo minuscolo orto.
Ora le sue mani ruvide accoglievano Shabbàt, circondando le fiamme e poi coprendo gli occhi stanchi mentre mormorava la benedizione sulle candele e pregando per ognuno dei suoi discendenti. Quando finiva, sorrideva felice, augurando “Gut Shabbes” alle figlie e nipoti e allora avveniva un miracolo: il foulard tanto consunto della mia adorabile nonna si trasformava in diadema dorato ornato di diamanti scintillanti, e il suo semplice abito nero diventava un’elegante cappellina dai colori cangianti. Quando infine si sedeva sulla sua sedia preferita dallo schienale dritto, il viso di mia nonna Hannah irradiava una luce misteriosa quanto lo Shabbàt stesso. Ogni traccia di duro lavoro della settimana spariva e tutti coloro che assistevano a questa trasformazione impressionante, assaporavano l’istante fugace di pace e di serenità.
La regina Shabbàt era arrivata.
Miriam Paltiel Nevel
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