All’età di dodici anni appresi dalla bocca dei miei genitori che ero stata adottata. All’epoca la legge prevedeva in questi casi il silenzio più rigoroso riguardo alle origini dei figli adottivi. I meravigliosi “genitori” che mi avevano accolta erano ebrei praticanti e un rabbino aveva indicato che dovevo, all’età del bat mitzvà, convertirmi all’ebraismo per sicurezza, visto che non si sapevano chi erano i miei genitori biologici. Ma ciò doveva essere fatto di mia iniziativa. Con la mia volontà.

Sconvolta e al contempo adirata da tale rivelazione, scelsi senza esitazione di non convertirmi! Sebbene i miei “genitori” fossero palesemente attristati dalla mia reazione, io mi intestardii. Dopotutto, perché accettare l’ebraismo visto che c’era la possibilità che io non fossi ebrea? Era il mio modo di protestare contro la bugia nella quale sono stata cresciuta. I miei veri genitori mi avevano abbandonata, pensai, ed ero pertanto libera di scegliere il mio cammino. Alla fine il rabbino suggerì ai miei “genitori” (che peraltro io amavo tantissimo) di chiedere consiglio al Rebbe di Lubàvitch.

Fummo ricevuti tutti e tre in udienza privata. Il Rebbe parlò a tutti e tre e poi chiese di poter intrattenersi con me in privato. Io trovai la richiesta un po’ strana ma i miei genitori adottivi accettarono e uscirono dall’ufficio. Il Rebbe mi annunciò che ero nata da genitori ebrei che mi avevano molto amata e che mi amavano tuttora dal cielo. No, ripeté, non mi avevano abbandonata, essi erano morti in un incidente stradale. Era la volontà di Hashèm – proseguì il Rebbe – volontà di cui le ragioni sono imperscrutabili – che fossero deceduti e che io rimanessi orfana. Aggiunse che Hashèm è il Padre di tutti gli orfani e che dunque ero particolarmente amata da Lui. Anche se non sarei stata sottoposta all’iter della conversione, visto che ero ebrea e che pure mia madre lo era, dovevo comunque passare da quella fase in quanto è la legge ebraica che lo ingiunge in queste circostanze. Per giunta, non c’erano due testimoni che potessero attestare l’ebraicitàdei miei genitori, visto che tutti i documenti relativi alla mia adozione erano ancora custoditi sotto segretezza e sigilli. Tuttavia, questo non cambiava il fatto che ero sicuramente ebrea di nascita.

Naturalmente ero sotto shock. Il rabbino che i miei “genitori “avevano consultato aveva deciso che senza conversione non potevo essere considerata ebrea. Non avevo la minima idea della grandezza del Rebbe e presumevo che egli seguisse semplicemente una linea più ammorbidita. Mi sbagliavo ma, d'altronde, come potevo capire che Hashèm gli aveva elargito la facoltà di conoscere la mia vita – subito, dal nostro primo incontro – mentre nessun altro ne sapeva nulla? Mentre ero assorta in queste elucubrazioni, il Rebbe riprese il suo discorso e disse che sapeva che non volevo credergli e che io pensavo che i miei genitori avessero montato il tutto affinché io accettassi di rimanere o diventare ebrea. Alche mi consigliò di recarmi al cimitero di una determinata città – dove i miei genitori biologici erano seppelliti – e di pregare per il riposo della loro anima.

Poi il Rebbe mi chiese di promettergli tre cose: di mangiare sempre kashèr, di rispettare lo Shabbàt e di cercare di andare a trovarlo almeno una volta all’anno. Lasciai il suo ufficio completamente frastornata ma soprattutto meno adirata. Dopotutto i miei veri genitori non mi avevano abbandonata come avevo creduto fino a quel momento. E accettai infine di sottopormi alla conversione, come il Rebbe aveva richiesto. Qualche anno dopo, mentre mi riprendevo lentamente e a stento dalle dichiarazioni del Rebbe, i miei genitori adottivi morirono a loro volta! Ora ero doppiamente orfana. La cosa era insopportabile e divenni sempre più furiosa contro tutto ciò che era relativo all’identità e alla pratica ebraica. La kasherùt non era un problema visto che ero diventata vegetariana e che potevo procurami molti prodotti, come pane, biscotti e formaggi con i simboli discreti della kasherùt. Di Shabbàt non usavo l’elettricità, non guidavo e rimanevo a casa a leggere, meditare e riposare. Così si manifestava la mia obbedienza alle consegne del Rebbe, con la kasherùt e lo Shabbàt.

Una volta all’anno andavo dal Rebbe e l’aspettavo davanti alla sinagoga, presso il 770 di Eastern Parkway. A volte si accontentava di salutarmi, a volte mi chiedeva di aggiungere alcuni dettagli alle mie mitzvòt, come dire la berachà prima di mangiare. Una volta, mentre stava passando di fretta davanti a me, non potei trattenermi dal gridare “Perché?” Si voltò verso di me ed ecco cosa mi rispose: “Hashem è anche Lui tuo genitore. Egli ti ama e vuole il tuo bene. Tu avevi bisogno di cibo kashèr e di rispettare lo Shabbàt, e sei stata affidata a delle persone che ti hanno nutrita solo con alimenti kashèr e ti hanno insegnato il rispetto dello Shabbàt. È per questo che devi mantenere la promessa di osservare queste due importantissime mitzvòt.” Poi il Rebbe salì in macchina e tornò a casa. La sua risposta era durata forse quindici secondi, ma per me fu il messaggio di una vita.

Anni dopo, riuscii ad ottenere informazioni sulla mia nascita, fatti ai quali nessuno aveva potuto accedere fino ad allora. I miei genitori erano ebrei e giacevano nel cimitero ebraico della città che il Rebbe mi aveva indicato. Mi ci reco ogni anno per pregare per la pace delle loro anime.

Ho continuato ad andare dal Rebbe una volta all’anno, e dopo il 3 Tammùz 1994, vado a pregare sulla sua tomba. Piango fino a che non mi rimangono più lacrime e ci lascio la mia pena; un po’ mi conforta perché mi sento legata a qualcosa di più grande di me. Cerco di assorbire il messaggio del Rebbe: Hashèm è mio genitore e persino io, la “figlia ribelle”, sono figlia di D-o, D-o che mi ama; e mi avvicino a Lui rispettando la mia promessa che risale a tanto tempo fa.

Come sapeva il Rebbe tutto quanto? Il fatto è che egli sapeva tutto ciò che succedeva in questo mondo e nel mondo futuro! Per lui tutto era semplice e ovvio come se leggesse una cartina e un segnale stradale. Sapeva con esattezza le mie origini, sapeva che non ero stata abbandonata da genitori insensibili e sapeva persino come erano morti e dove erano sepolti!

Questo non apparteneva alla logica umana bensì a “un’altra dimensione”, al di là della nostra comprensione. Non credo che la mia storia sia comprensibile a tutti, ma questa non è solo un’altra storia su un miracolo compiuto dal Rebbe. Si tratta semplicemente di un aspetto della descrizione di un essere umano che aveva accesso senza limiti alla dimensione divina.

Malka (che desidera rimanere anonima)

Rav Shalom Avtzon - COLlive