Era già da qualche anno che, su consiglio di un amico, avevo preso l’abitudine di frequentare il Bet Chabad di Savoy a Johannesburg (Sudafrica). Avevo imparato ad amare questo luogo, la comunità e il suo rabbino – sempre alla ricerca di buone azioni e pronto ad incitarci a diffondere il bene: fedele al Rebbe e ai suoi insegnamenti, ripeteva che anche un po’ di bene può illuminare molta oscurità. Ultimamente, avevamo intrapreso un bel viaggio che ci condusse dal Sudafrica all’Asia, ovvero da Johannesburg alla Cambogia e da lì a Koh Samui passando da Bangkok in Tailandia. Al nostro arrivo nel primo pomeriggio, mia moglie mi chiese dove avevo messo le medicine di nostra figlia. Le rammentai che le aveva lei stessa somministrate a nostra figlia quella mattina stessa all’albergo a Phnom Penh in Cambogia, prima di prendere l’aereo. Si rese conto che le aveva lasciati lì. Telefonammo all’albergo e ricevemmo conferma che i preziosi medicinali erano stati ritrovati. E dopo, come fare?

Contattammo la compagnia di assicurazione e ci volle un’ora d’attesa per parlare ad un “responsabile”, il quale, molto “dispiaciuto”, ci suggerì di recarci all’ospedale più vicino. Quando spiegai che questi prodotti erano introvabili in Tailandia, neppure negli ospedali, e quando supplicai di mandarmi questi medicinali, mi informò che, contrariamente a ciò che credevo sottoscrivendo il contratto, la possibilità di spedire i medicinali da un paese all’altro non era inclusa nella clausola.

Chiamai il mio agente di viaggio a Phnom Penh che si propose di ritirare le medicine presso l’albergo e di tentare di spedirle a Koh Samui tramite la posta.

Ma mi avevano appena informato che ciò non era possibile, cosa che il mio agente, stizzato, mi confermò un’ora dopo. Proposi di pagargli il biglietto andata e ritorno, con una notte d’albergo in loco ma mi chiese un’ora per rifletterci su. Due ore dopo, e dopo ripetuti scambi di SMS, mi notificò il suo rifiuto.

Non sapevo più cosa fare! Forse uno di noi due doveva fare il viaggio fino in Cambogia?

Poi ebbi un lampo. Laddove esiste la famosa bevanda gazzosa ci sono i Chabàd. Giusto? E il portale in rete mi diede il nome e il numero telefonico.

“Qui rav Butman di Phnom Penh, al vostro servizio. Mi dica.”

Sollevato, gli spiegai la situazione. Capì l’urgenza e dichiarò che era disposto ad andare a prendere il pacco all’hotel e di portarlo all’aeroporto visto che conosceva lì uno degli addetti. Una mezz’ora più in là il mio agente di viaggi mi telefonò per dirmi che il “mio amico” era venuto a prendere il pacco e che si incaricava di inviarlo. Un’ora dopo, rav Butman mi chiamò dall’aeroporto dove stava tentando di trovare un passeggero disposto a prendere il pacco con sé fino a Koh Samui. Purtroppo, mezz’ora dopo mi annunciò che gli agenti di sicurezza gli avevano vietato l’accesso alla zona delle partenze (inutile dire che se un uomo travestito da rabbino mi avesse chiesto un favore del genere, avrei sicuramente rifiutato recisamente pure io).

Ciò che accadde in seguito mi lasciò di stucco.

Rav Butman aveva chiamato il suo amico e collega, rav Mendy Goldsmith di Koh Samui. Entrambi giunsero alla conclusione che bastasse che rav Butman prendesse il volo per Bangkok, consegnasse il pacco agli uffici di Thai Airways che a loro volta lo avrebbero consegnato ai Lubavitch di Koh Samui. Rav Butman mi disse di recarmi l’indomani mattina al Bet Chabàd di questa città, dove rav Goldsmith mi avrebbe dato il pacco di mano sua. Infatti l’indomani mattina, ricevetti un messaggio di rav Goldsmith che diceva che le medicine erano arrivate e precisò che aveva potuto trovare un volo di ritorno da Bangkok solo per il giorno dopo. Ne dedussi che aveva passato una notte molto scomoda all’aeroporto. Ero rimasto a bocca aperta talmente il suo gesto sorpassava ogni limite di gentilezza. Per giunta, aveva fatto tutto ciò senza neanche essere sicuro di avere il rimborso delle sue spese. Mi recai dunque al Bet Chabàd di Koh Samui e mi presentai. Rav Goldsmith mi accolse molto gentilmente e mi chiese se potevo fargli un favore e completare un minyàn per un signore in lutto che doveva recitare il Kaddìsh. Accettai di buon grado.

Mia moglie conosceva l’usanza dai chabàd e sapeva che un semplice minyan poteva essere seguito da qualche parola di Torà. Pertanto, quando arrivai all’albergo solo due ore dopo, non ne fu affatto sorpresa.

Inviai una email a rav Butman per le sue coordinate bancarie affinché potessi rimborsargli le spese per il viaggio e contribuire, anche se modestamente, alle sue attività di beneficienza. Come è noto, la Cambogia è un paese martoriato, con un passato a dir poco difficile: negli anni ’70 milioni di persone innocenti vi furono massacrate dal proprio governo e noi ebrei, sappiamo che l’orrore di questi eventi sono indelebili. Presumo che rav Butman sia in contatto con i sopravvissuti e che forse ne potrà portare alcuni in Sudafrica allo scopo di insegnarci le capacità di resilienza dell’essere umano e la necessità di diffondere il bene.

Tocca a noi calcare l’esempio sull’atteggiamento di questi rabbini Chabàd - che ho incontrato nel corso dei miei viaggi e della mia vita in generale – e rispondere sempre presenti all’appello di aiuto di un fratello.