Questa è la storia di uno shofar e di un bambino di nome Moshe.
Sai che cosa sia uno shofar? Lo shofar è fatto con il corno di un ariete.
Per Rosh Hashanà, in tutto il mondo ed in ogni luogo dove ci sia ebrei, si suona lo shofar.Il suono dello shofar ci ricorda che siamo ebrei e che dobbiamo chiedere perdono per tutti gli errori commesi. Il Baal-Shem-Tov disse che il suono dello shofar assomiglia ad un pianto di qualcuno che si è perso nella foresta.
C’era una volta, molti anni fa, nelle lontane campagne della Russia, un ragazzo molto povero di nome Moshe.
Andava al “Cheder” come tutti gli altri bambini della sua città. Gli piaceva studiare il “Chumash” e la “Ghemara”. Quando divenne grande, dovette andare a lavorare. Povero Moshe! Non aveva ne un papà ne una mamma che si curassero di lui. Voleva rimanere in Yeshiva a studiare e con la speranza magari di diventare un bel giorno un gran dotto. Purtroppo Moishele aveva poca scelta. Era un povero orfano. Doveva cercarsi un lavoro e imparare a badare a se stesso.
Moishele decise di diventare un venditore ambulante. A quei tempi non esistevano molti negozi. I venditori ambulanti viaggiavano attraverso tutto il paese con una valigia piena di roba da vendere. Moishele prese una valigia e la riempi di cianfrusaglie.
Aveva aghi e filo, forbici e ditali, pezzi di stoffa, tutti i tipi di bottoni e molte altre cose.
Non era facile fare il venditore ambulante. Durante l’estate faceva caldo e Moishele si sentiva stanco ed assettato mentre camminava per le strade polverose di campagna con la sua valigia pesante. D’inverno invece, Moishele tremava di freddo e gelava perché i suoi indumenti non erano abbastanza caldi per proteggerlo dai venti gelidi.
La sua vita andava avanti così, finché un giorno il povero Moishele fu colto da una forte tempesta di neve. Era una vera bufera. La neve non smetteva di scendere dal cielo grigio.
Tutto era coperto da un grosso strato di neve, e, malgrado questo Moishele cercò di farsi coraggio ed essere allegro. Per non perdersi di coraggio recitava tutti i salmi che conosceva a memoria.
Ad ogni passo gli sembrava più difficile camminare. La sua valigia gli pesava sempre si più. La neve gli arrivava alle caviglie. Presto gli arrivo alle ginocchia. A mala pena Moishele riusciva a muovere la sua valigia. La neve era dappertutto. Era perfino difficile seguire la strada perché la neve copriva ogni cosa. Senza accorgersene Moishele si scostò dalla strada verso il bosco. Era molto, molto stanco.
Quando trovo un tronco d’albero, decise di sedersi a riposare un attimo. Moishele sapeva che era molto pericoloso addormentarsi. Cercò con fatica di stare sveglio. Incominciò a dire più volte a se stesso: “Non addormentarti devi stare sveglio. Se ti addormenti potresti gelare e morire”. Moishele si sentiva tanto, tanto stanco e pensava che una breve sosta gli avrebbe fatto bene. Stava tremando di freddo col suo abito tanto leggero, e si addormentò.
All’improvviso incominciò a sentirsi bene al caldo. Penso di essere seduto accanto ad un fuoco caldo ed accogliente. Distese le mani ed i piedi per riscaldarsi vicino al fuoco. Per un attimo Moshele ebbe la sensazione che degli spilli gli punzecchiassero la punta delle dita. Ma presto questo dolore scomparve e Moishele si sentì felice e riposato. Le fiamme di quel fuoco ardevano sempre più forte.
La sera incominciava a calare. Presto si sarebbe fatto buio. Sulla strada passava un contadino con la sua slitta ed il suo cavallo, tutto felice di ritornare presto a casa. Un momento!!! Cos’era quello? Un po’ più in là dal bordo della strada, nelle vicinanze del bosco, si accorse di qualche cosa di strano. Che cos’era? Sembrava la sagoma di un corpo umano disteso sulla neve. Poteva essere ancora vivo? Era veramente un uomo? Fermò il suo cavallo e corse a dare un occhiata. Non riusciva a credere ai suoi occhi. Era un ragazzo! Spazzò la neve dai suoi abiti, non c’era alcun segno di vita. Il corpo era quasi irrigidito dal gelo.
Non c’era un attimo da perdere. Forse sarebbe riuscito a salvare la vita di quel ragazzo. Tirò fuori in fretta il suo coltello: e cominciò a sfregare il corpo del ragazzo con della neve. Come la neve si scioglieva per lo sfregamento, ne prendeva un'altra manciata e continuava il suo lavoro. Guardò il ragazzo per vedere se dava segni di vita. Ma nulla era cambiato. Il contadino aveva paura di smettere benché incominciasse ad essere stanco di massaggiare il corpo del ragazzo con la neve.
All’improvviso il ragazzo si mosse. Si mosse solo un pochino, ma era quanto bastava per far felice il contadino. Egli capì che il sangue aveva incominciato a circolare di nuovo e che quindi il ragazzo era fuori pericolo.
Il contadino caricò il ragazzo sulla slitta e lo copri con delle coperte calde. Quindi trascinò il suo cavallo e corse con la sua slitta, il più veloce possibile, verso la sua fattoria nel villaggio vicino.
Il contadino trascinò il ragazzo nella sua casa. Quindi lo adagiò su alcune coperte vicino al camino. Lo massagiò di nuovo con un po’ di neve, finchè non vide che la pelle aveva un aspetto sano e infuocato.
Il contadino scaldò un po’ di latte imboccò delicatamente il ragazzo con il cucchiaio. Moishele apri gli occhi per un attimo. Poi li richiuse e si addormentò. Dormì serenamente per tutta la notte.
Al mattino si svegliò con il canto del gallo. Moishele apri gli occhi e si guardò intorno.
Tutto intorno a lui era strano. Non riusciva a capire dove fosse. Cercò di ricordare cosa fosse successo, ma Moshele di era dimenticato di tutto. Non ricordava dove fosse la sua casa. Non ricordava i suoi viaggi da venditore ambulante.
Era troppo stanco per pensare. Tutto ciò che desiderava ora era di dormire. Quando di svegliò ebbe la sensazione che qualcuno gli stesse conficcando aghi e spilli nel corpo. Sapete, questa è la sensazione che si prova quando si è congelati. Sentite come se qualcuno vi stia punzecchiando dappertutto con aghi e spilli. La moglie del contadino venne da Moishele a salutarlo. “come ti senti?” gli domando in russo, in quanto questa storia si svolge in Russia. “Mi pare d sentirmi bene, grazie” rispose Moshele. Egli si domandava ancora cosa gli fosse successo e come avesse fatto ad arrivare nella casa del contadino.
La donna gli preparò una buona zuppa calda di cereali e gli diede anche un cucchiaio. “Come ti chiami?” gli chiese. Moshele si spaventò: non ricordava il proprio nome! Cercò di concentrarsi al massimo, ma non riuscì proprio a ricordarsi.
Moshele era stato molto male. Si era congelato fin quasi a morire. Ora tutto era passato, incominciava a sentirsi più forte, ma non ricordava nulla.
“Non lo so. Non riesco a ricordare il mio nome” disse dispiaciuto “Non importa” disse la moglie del contadino. “Non preoccuparti. Puoi rimanere con noi a casa nostra. Ti chiameremo Peter. Cosa te ne pare?” e gli fece un bel sorriso. Moshele contraccambiò “Sì” disse “Mi starà bene”.
Moshele, o meglio Peter come si chimava ora, visse nella casa del contadino e di sua moglie e divenne parte della famiglia. Non ricordava di essere un ragazzo Ebreo e di non appartenere a quella casa. Si dimenticò completamente di vivere da Ebreo e prese i modi e le abitudini del contadino e di sua moglie.
Durante tutta l’estate Peter aiutò nel lavoro di campagna. Arava la terra, seminava. Vide tutto quanto crescere! Peter non era un ragazzo pigro. Lavorava duro ed il contadino era molto soddisfatto di lui. Peter era un ragazzo capace ed un buon lavoratore.Quando venne l’autunno fu tempo di mietere il raccolto.
Un giorno il contadino disse a Peter: “Domani andremo in città. Prenderemo alcuni dei nostri prodotti per venderli al mercato”.
Peter fu molto contento. Il lavoro nella fattoria era stato molto duro e Peter aveva lavorato molto. Sarebbe stato un gran divertimento andare in città.
Peter era così felice che non riuscìa dormire quella notte. Il viaggio in città non fu molto lungo, ma a Peter sembro durasse ore e ore. Quando arrivarono furono molto sorpresi. Non c’era gente per la strada. La piccola città sembrava deserta.
Passando vicino al piccolo tempio della città, videro che era gremito perchè era Rosh Hashanà.
Il contadino decise che fosse meglio tornare a casa perchè quel giorno non era adatto a fare affari. Peter però continuò a fissare il Tempio. Non voleva tornare alla fattoria. Non riusciva a distaccare lo sguardo dal Tempio. Così pregò il contadino di rimanere in città ancora un momento. Il contadino notò quanto Peter fosse felice; gli disse che poteva trascorrere il pomeriggio per conto suo girando per la città. Dopotutto aveva ben diritto ad una pausa dopo il duro lavoro della campagna.
Peter ebbe la sensazione che qualcuno lo spingesse verso il Tempio. Gli sembrava di camminare ad occhi chiusi. Senza accorgersi di andare avanti si trovo tutto ad un tratto all entrata del Tempio.
Gli uomini erano tutti avvolti nei loro scialli usati per la preghiera (Tallet). Tutti pregavano ed alcuni si lamentavano. Nessuno si accorse della presenza di Peter vicino alla porta. Nessuno fece attenzione a lui.
Peter si guardò intorno: tutto gli sembrava famigliare. Era mai stato lì? Il suo cuore cominciava a battere sempre più forte. L’aria e le melodie del cantore gli erano familiari. I rotoli della Toràh che erano portati fuori dall Aron Hakodesh gli erano familiari. E quando comincio a sentire le parole delle preghiere anche quelle gli erano familiari. A poco a poco gli ritorno la memoria ed ogni cosa nel Tempio lo portavano a ricordarne altre. Peter rimase li senza muoversi come fosse appiccicato e fisso quanto gli era intorno…
Peter non sa quanto rimase lì in piedi, quando si accorse di una certa agitazione fra i fedeli della sinagoga. All improvviso tutti fecero silenzio. Tutti stavano in piedi al loro posto. Peter non osava neppure respirare. Sembrava che l’aria si riempisse di santita. Chiuse gli occhi per un attimo e gli parve che gli angeli fossero tutti intorno a lui.
All’improvviso il silenzio fu rotto dallo suono dello shofar. Il vecchio cantore soffiava nello shofar. Il suono dello shofar diede una strana sensazione a Peter. Man mano che le note diventavano piu alte, Peter aveva la sensazione di avere le ali e di volare sempre piu in alto.
Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Le lacrime cominciarono a scendere sulle guance. Ma dentro di lui nel suo cuore, Peter rideva. Ora tutto gli era chiaro.
“Moshele, tu sei Ebreo” gli diceva lo shofar “Moshele, tu sei Ebreo”. E Moshele disse piano: “Grazie shofar. Oh grazie per avermi aiutato a ritrovare la mia strada. Grazie per avermi ricordato che sono Ebreo”.
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