Che cosa spinge molti ebrei, lontani dalla fede per anni, a riavvicinarsi all'ebraismo? La teshuvà, dicono i Saggi, che è in ognuno di noi.

Spesso la parola ebraica teshuvà viene resa in italiano con il termine "pentimento". In tal modo si rischia di stravolgerne il senso: teshuvà significa in realtà "ritorno" e i due concetti non sono assolutamente sovrapponibili.

Chi si pente è oppresso da un senso di colpa, chi ritorna è animato dalla speranza di ritrovare ciò che ha abbandonato. Mentre nel pentimento il sentimento predominante è quello di aver commesso del male, nella teshuvà predomina la consapevolezza che il male sia un incidente di percorso, che non è riuscito a toccare il nostro "io" profondo, la nostra natura che rimane sostanzialmente buona.

II pensiero chassidico insegna che ciascuno possiede un'anima divina, una scintilla del Signore. Teshuvà significa semplicemente scoprire questo frammento, il proprio autentico "io", stabilire un contatto con le nostre forze interiori e farne il fattore dominante della nostra vita.

A differenza di chi si pente ed è accasciato dal senso di colpa, un baal teshuvà, I'uomo che sta praticando la teshuvà, è un uomo pieno di gioia perchè si rende conto che sta stabilendo un legame profondo con il proprio potenziale spirituale, scoprendo il proprio rapporto con la creazione.

Solitamente si pensa al pentimento come a un processo che interessa un numero limitato di persone, se non altro perchè si presume che chi è santo non abbia bisogno di pentirsi. Al contrario la teshuvà interessa tutti, senza eccezione, dal più rozzo al più perfetto. Maimonide dice che neppure i perfetti, gli tzaddikim, possono esimersi dalla teshuvà. Ciascuno di noi è limitato dalla sua natura di essere umano: i nostri pensieri, i nostri sentimenti, così come i nostri corpi e i nostri desideri, hanno dei limiti. Attraverso la teshuvà possiamo elevarci al di sopra del nostro "io" limitato, stabilire un contatto con l'illimitato potenziale della scintilla divina che è in noi.

II Talmùd mette in luce un'altra fondamentale differenza tra pentimento e teshuvà: nel trattato Yoma 86-b viene affermato che attraverso la teshuvà i nostri peccati, anche quelli voluti e compiuti intenzionalmente, sono trasformati in meriti. Questo concetto sembra a prima vista assurdo: si può capire come il Signore possa perdonare i nostn peccati e permetterci di ricominciare da zero. Ma come può il peccato stesso, che è un atto direttamente contrario al Signore, essere trasformato in qualcosa di positivo? Come può ciò che separa l'uomo dal Signore essere ciò che, al tempo stesso, lo avvicina a Lui?

Si può tentare di spiegarlo con un paragone. Chi si immerge nell’acqua, più va in profondità più sente un oggettivo richiamo a risalire in superficie. Maggiore è il suo distacco dalla superficie dell'acqua, maggiore è la forza che lo spinge a ritornare a galla. Allo stesso modo la consapevolezza di essere tagliato, separato dal Creatore sveglia il bisogno di stabilire un legame più intenso con Lui. II peccato, l'atto di separazione, fornisce lo slancio grazie al quale la nostra natura divina risale alla superficie. II legame che ci lega al Signore è troppo forte, troppo essenziale per potere essere interrotto: rimane sempre come un richiamo a ritornare da Lui.

Questo può forse spiegare l'irresistibile richiamo che molti ebrei, completamente integrati, sentono, ad un certo punto della loro vita, per i valori religiosi e l'osservanza delle mitzvòt. II ritorno al Signore, la teshuvà, può non essere un fatto improvviso e determinante: a volte si manifesta come un'attrazione verso la religione che si sviluppa lentamente, un gravitare verso il punto essenziale della presenza divina in noi, la nekudàt hayahadùt. Concerne quindi il livello più profondo del nostro rapporto con la creazione, quel legame che non può essere mai sciolto da nessuno dei nostri pensieri e delle nostre azioni. Lo studio della Torà e l'osservanza delle mitzvòt si situano a livello conscio e stabiliscono un legame con il Signore basato su di una scelta ragionata e voluta, mentre il rapporto che unisce l'essenza dell'anima dell'ebreo all'essenza del Signore si situa a un livello più intimo, che sta al di sopra e oltre le scelte compiute nella vita. Ed è per questo che, inaspettatamente e nei modi più diversi, il richiamo del ritorno, la teshuvà, si fa sentire nell'animo di tanti ebrei.

La teshuvà, oggi

Le istruzioni riguardanti la teshuvà sono state descritte in un'opera cabalistica medievale scritta da rabbi Elkana ben Yerucham. L'opera si riferisce a una situazione ben diversa dall'attuale. Allora gli ebrei vivevano in un contesto di pratica religiosa e chi si metteva sulla via della teshuvà non era, come invece accade oggi, un estraneo per la comunità. Osservava le mitzvòt, conosceva la Torà e se si sentiva spinto alla teshuvà ciò accadeva perchè riconosceva di essere peccatore e aspirava a una vita di maggiore spiritualità.

Per costoro Elkana ben Yerucham propone un sistema di pratiche ascetiche e di mortificazioni che sono però assolutamente improponibili per gli ebrei del giorno d'oggi che spesso hanno abbandonato qualsiasi parvenza di pratica religiosa. Costoro sono descritti da Elkana come "infanti cresciuti tra i gentili".

II ritorno dell'infante cresciuto tra i gentili avviene in molti modi che differiscono fondamentalmente dalla teshuvà descritta nella letteratura tradizionale. Si tratta di un ritorno, ma non verso una qualche dimensione personale: è piuttosto un ritorno in senso molto più profondo, il ritorno dell'individuo verso il suo popolo, verso le sue origini, verso il crogiuolo nel quale è stato formato, sia storicamente sia moralmente. L'uomo pio che lascia momentaneamente la retta via, cerca con la sua teshuvà di correggere un difetto nel suo modo di vita abitudinario. Chi invece giunge alla Torà e all'ebraismo partendo da una situazione completamente estranea, deve compiere un cambiamento radicale del suo modo di vivere e di pensare. La vastità del cambiamento non sta solo nel fatto che deve ora osservare un certo numero di precetti e adattarsi a un sistema di richieste rituali, ma nel dovere assorbire un'intera nuova cultura, nell'alterare profondamente

le proprie occupazioni quotidiane e, sopra ogni altra cosa, nel dovere affrontare lo studio della Torà. Una cultura è più che un insieme di nozioni o un insieme di regole comportamentali: è un modo onnicomprensivo di guardare il mondo, di correlarsi con gli altri.

II baal teshuvà d'oggi si trova a entrare in un mondo nuovo pieno d'incanti e di attrazioni. Alcuni possono averne fatta conoscenza nella loro infanzia, altri possono averlo conosciuto attraverso delle letture, altri infine possono averlo osservato solo dall'esterno, spesso con ostilità. Ma tra il conoscere e il partecipare esiste una differenza essenziale: la differenza tra "Io prego" e "Egli prega" non è solo questione di pronomi, consiste in esperienze del tutto diverse. La preghiera di un altro è un fenomeno che io osservo e giudico, la mia preghiera richiede, invece, un coinvolgimento personale.

Nella teshuvà compiuta dalla stragrande maggioranza degli ebrei di oggi il nodo centrale consiste nella capacità di compiere una transazione da un mondo culturale all'altro, nel cambiamento dei propri modelli di relazioni interpersonali, impresa ben più difficile di ogni altro problema pratico o personale che può sorgere.

L'esodo dall'Egitto, considerato come l'archetipo della liberazione spirituale, avviene in due stadi: il momento dell'esitazione e il momento della liberazione spirituale.

II popolo d'Israele esita sulle sponde del Mar Rosso, poi improvvisamente Nachshon ben Aminadav balza nelle acque profonde. Nonostante i miracoli sperimentati, nonostante l'incalzare del nemico alle spalle, la marcia in avanti viene fermata da una pausa cruciale. Ci si trova davanti a una barriera che non può venire attraversata se non con una decisione coraggiosa, correndo un rischio, saltando nell'ignoto.

Nel mondo spirituale come in quello fisico la transizione da una situazione a un'altra può richiedere una miriade di piccoli passi, ma si arriva sempre a un punto che richiede un cambiamento categorico. Si può camminare avanti e indietro lungo la spiaggia per tutta la vita, mettere perfino i piedi nell'acqua, ma se non ci si tuffa, se non si decide di abbandonare la sicurezza della terra ferma, balzando in mare prima ancora di avere la certezza di galleggiare, non si potrà mai vivere l'esperienza del nuoto.

L'entrata nel mondo dell'ebraismo è l'ingresso in un mondo del tutto diverso e se qualcuno decide di farlo ha bisogno prima o poi di prendere una decisione radicale. Ciò non implica il fare immediatamente un salto. Buttarsi prima di essere pronti può essere pericoloso e talvolta dannoso. A volte, dopo lunghe esitazioni, il passo decisivo viene preso sotto la spinta di circostanze esterne, come una persona che cada accidentalmente nell'acqua dopo essere stata a ponderare se farlo o meno. Dal punto di vista oggettivo c'è poca differenza tra la situazione di chi si muove per spinte interiori e di chi invece è costretto da fattori esterni. L'importanza è che ci sia un'improvvisa perdita di stabilità. Per raggiungere un nuovo equilibrio è necessario abbandonare il vecchio, non si può mantenere entrambi simultaneamente.

Certo, non ci si può rinnovare con un singolo atto, ogni mutamento radicale esige, oltre a una decisione iniziale, un lungo processo di trasformazione. Tuttavia esiste una fondamentale differenza tra chi non ha ancora fatto il salto e chi lo ha fatto. Chi è riuscito la prima volta a tuffarsi nell'acqua ha fatto un'esperienza che lo distingue nettamente da chi ancora sta sulla sponda a guardare. È chiaro che molte difficoltà sussistono, per parecchio tempo: nell'entrare nell'acqua avrà dei timori, e nell'imparare a nuotare dovrà superare parecchie difficoltà, ma l'azione decisiva e determinante è stata compiuta. Allo stesso modo, nella teshuvà una volta presa la decisione primordiale rimarranno ancora molti nodi da sciogliere, molte difficoltà da affrontare, ma sono difficoltà della vita pratica, dettagli, lo sviluppo delle ramificazioni di una decisione già presa.

C'è un aspetto paradossale della teshuvà: da una parte è necessario un taglio che separi la propria vita in un "prima" e in un "dopo", dall'altra la teshuvà è legata al proprio passato specifico. Come dicono i Saggi, è solo quando un fiume viene bloccato da una diga che la sua potenza diventa evidente. La distanza che esisteva tra il baal teshuvà e la santità, negli anni precedenti la sua teshuvà, diventa la radice della forza del suo attuale desiderio di cambiamento. La rottura con il passato e la spinta che ne deriva, anche se apparentemente contraddittori, sono due momenti inscindibili della teshuvà. I1 baal teshuvà deve sentirsi come "un bambino appena nato" e al tempo stesso rinascere già con le qualità di un adulto maturo.

È solo con il conoscere il proprio passato, vedendolo come parte integrante della propria vita, che si può evitare il pericolo di cadere nella faciloneria o di diventare impazienti ed estremisti nel giudicare il modo di agire altrui. Sebbene il baal teshuvà possa ora trovarsi in un "mondo differente", deve ricordarsi che non è sempre stato così e che rimane responsabile di come ha agito nel passato. Nè può addossare tutte le colpe agli errori dei genitori e dell'educazione ricevuta. Sono queste attenuanti che non possono cancellare completamente il senso di colpa per gli errori commessi.

Non esiste alcun modo di sfuggire al passato, di rinascere completamente nuovi. Anche chi ha attuato le trasformazioni più radicali, chi ha capovolto completamente i propri valori e il proprio credo non diventa per questo un tipo di persona diversa da quella che era. Non ci si può rivolgere alla teshuvà come se fosse la panacea di tutti i problemi personali: si corre il rischio di rimanere delusi. È necessario invece compiere uno sforzo continuo e determinato, superando lo scoraggiamento, la fretta e l'intransigenza.

Il baal teshuvà dopo aver attuato un grande cambiamento spirituale, deve comunque ritornare a se stesso e valutare con esattezza ciò che è cambiato, valutando se si tratta di mutamenti radicati nel profondo del proprio io, o se invece siano cambiamenti superficiali. Senza scoramenti. Come dicono i Saggi, la corda che lega ogni individuo al Creatore è più forte dove c'è il nodo fatto per ripararne la rottura.