La Torà si mette nei nostri panni

Gli agricoltori della Terra d’Israele ricevono l’ingiunzione di mettere i terreni a maggese. “E se tu dici – avanza la Torà – Cosa mangeremo il settimo anno? ... Io benedirò il sesto anno che darà un raccolto sufficiente per un periodo di tre anni”. La Torà propone una soluzione quando intende mettersi nei nostri panni, quando i precetti sono avvolti da una pesante coltre di mistero. I comandamenti, tutti, seguono parametri divini e non umani. Prendiamo il caso del “Non uccidere”: nessuno mette in dubbio l’abiezione dell’atto, tuttavia, dobbiamo ottemperare perché è un comandamento divino, sebbene “a misura d’uomo”, esso è innanzitutto divino.

Le mitzvot si suddividono in due categorie: mishpatim, regole etiche comprensibili, e i chukim, dogmi, inafferrabili dalla mente umana. Questi ultimi rivestono la massima importanza in quanto servono a dimostrare la nostra volontà di ubbidire a Do a prescindere dal tipo di comandamento, nonché la nostra cieca fiducia nelle Sue prescrizioni. Pertanto, senza di essi non potremmo connetterci al Creatore: eseguire solo ciò che è percettibile dal nostro intelletto è segno di egoismo, di facile autosoddisfazione e di superbia, e, di conseguenza, non basterebbe a legarci al Sign-re e tantomeno a manifestarGli il nostro attaccamento. A sostegno di ciò, il rito caratteristico di Pesach illustra ancor meglio il quadro.

La forza del ‘ma?’

Durante la lettura dell’Haggadà ci soffermiamo sui quattro figli. Il figlio saggio chiede: “Cosa sono tutti questi comandamenti?”. Il figlio intelligente e pio si interessa non solo alle imperscrutabilità dei dogmi ma anche alle regole accessibili. Solo in due

occasioni la Torà introduce in tal modo le domande. Quella del Seder è citata dalla Torà dopo aver impartito le disposizioni inerenti all’anno sabbatico. Se ne deduce che essa deve essere posta dall’uomo dotto, da colui che studia sempre e che sempre si

interpella. Benché queste due domande non sembrino aver nessun nesso, esse condividono una particella: il cosa? (Ma?). Il popolo ebraico è il popolo del perenne interrogativo “Qual è la ragione?”.

Non è solo segno di acuità d’ingegno, bensì di desiderio di intendere anche i concetti più semplici, di voler legarci al Creatore tramite evidenze. “Cosa?” è univoco, è una domanda e al contempo una risposta, dacché spesso non ci viene fornito alcun chiarimento. Interroghiamo D-o senza esigere necessariamente le Sue spiegazioni. “Ma?” è una prova di modestia. In realtà non si tratta di domande, ma di affermazioni rappresentate dal “Ma?”. Infatti, nei due casi si impiega il verbo dire: “E se tu dici cosa mangeremo...” Poi: “Cosa dice il figlio saggio? Ignoriamo ciò che mangeremo, ma sappiamo che

avremo del cibo. La Torà ci assicura che Hashem non ci trascurerà se avremo l’umiltà prescritta dal “Ma?”.

(Likkutè Sichòt)