Con questa parashà si comincia a leggere il quarto libro della Torà, Bemidbar (lett. nel deserto, in italiano chiamato Numeri), dove sono raccontate le vicende del popolo ebraico nei quarant’anni nel deserto.
I Maestri si interrogano sulla ragione per la quale il Sign-re ha scelto il deserto come luogo dove donare la Torà al popolo, non la Terra Promessa, non Gerusalemme bensì il deserto. Oltretutto sappiamo che il deserto del Sinai non fa parte dei confini del futuro Regno d’Israele, quindi gli Ebrei hanno ricevuto la Legge nella diaspora, in uno situazione quasi di esilio.
Per comprendere questo principio dobbiamo approfondire il significato del deserto, non solo in senso geografico ma anche spirituale e metafisico.
Il deserto è una terra che non produce frutti, desolata, dove non c’è niente; nessuno in un posto così può vantare un possesso specifico, non ci sono privilegi in un luogo dove non c’è alcun tipo di ricchezza. Questo suggerisce il principio per il quale la Torà, la Parola di D-o, non è appannaggio di alcun gruppo, clan o popolo; la Torà è di tutti in ugual modo.
Altra spiegazione: gli ebrei sono usciti dall’Egitto per ricevere la Torà e costituire il Regno di D-o. L’Egitto rappresenta tutto ciò che allontana l’uomo dalla spiritualità e lo immerge in una materialità profondamente smodata. Era la terra più ricca del mondo, spesso le ricchezze corrompono l’uomo facendolo diventare avido ed egoista; era una terra di magia, spesso le superstizioni portano a dimenticarsi di D-o e dei valori morali, perché troppo presi a preoccuparsi se gli astri siano favorevoli oppure no – dicono i Maestri che l’idolatria è quando si pregano i servi (gli astri) anziché il vero Padrone del mondo (D-o) – era un luogo dove esisteva un culto estremo per l’esteriorità, ci si adorna di trucchi, parrucche, gioielli: spesso un eccessivo estetismo adombra l’introspezione e ricerca interiore. Tutto questo era l’Egitto, per cancellare, o meglio rettificare, queste tendenze, che di per sé non sono blasfeme, ma lo diventano nel momento in cui subentra l’eccesso, nel momento in cui non sono solo un mezzo per raggiungere un traguardo morale, ma il fine ultimo della propria esistenza, è necessario fare tabula rasa, cancellare tutto, tornare al livello del deserto (bemidbar) dove le nostre esperienze passate non abbiano più alcun peso, dove l’ambiente in cui viviamo non abbia alcuna influenza su di noi. Solo così saremo di nuovo capaci di imparare, di essere ricettivi ad una nuova educazione; se il palazzo ha fondamenta fragili e instabili non serve rintonacare i muri esterni, solo abbattendolo sarà possibile ricostruirlo con basi forti e durature.
Altra spiegazione: la vita degli ebrei nel deserto era molto particolare. Non avevano bisogno di lavorare per nutrirsi: c’era la manna che scendeva ogni giorno dal cielo per merito di Mosè; non avevano bisogno di cercare l’acqua: c’era il pozzo che li seguiva per merito della profetessa Miriam; tutto il giorno non avevano altra preoccupazione che di approfondire la Legge e la conoscenza della Torà. Solo dopo questo periodo vissuto così avrebbero ottenuto di entrare in Israele per diventare una nazione ricca e potente. Questo assomiglia all’educazione che si deve dare ad una bambino. Sono i genitori che provvedono a nutrirlo, a vestirlo e a curarlo; il piccolo non ha fatto ancora niente per meritarsi tutte queste attenzioni, l’unica cosa che i genitori vogliono è che lui studi, impari, cresca dentro quanto cresce nel corpo. Un bambino non deve provvedere a niente, non ha responsabilità, la sua vita fino all’età adulta deve essere priva di responsabilità dirette, di pressioni sociali o lavorative poiché solo così quando dovrà misurarsi con i problemi del mondo avrà la forza di superare le difficoltà, ricco del bagaglio che i suoi genitori gli hanno lasciato. Un altro insegnamento che possiamo trarre da questa spiegazione è che tutte le necessità materiali non dipendono veramente da noi, dal nostro lavoro, dalla nostra forza o capacità, ma solo e unicamente dal volere del Sign-re; anche quando lavoriamo e percepiamo un compenso per il successo ottenuto, in verità è come quando ricevevamo la manna nel deserto, dipendiamo comunque dalla misericordia di D-o, questa volta anziché scendere dal cielo si manifesta sotto forma di intelligenza, forza o qualsivoglia attributo grazie al quale riusciamo a distinguerci e ottenere dei risultati.
Altra spiegazione: l’espressione midbar sinai (deserto del Sinai) ha valore numerico 376 lo stesso della parola shalom (pace); quando gli Ebrei arrivarono al monte Sinai per ricevere la Torà leggiamo il versetto e Israele si accampò là (Esodo 19, 2). Rashi in loco commenta la parola vehichan (si accampò) dicendo che è al singolare perché il popolo ebraico era come un solo uomo con un solo desiderio. Quale era l’unico desiderio di Israele davanti al monte? La pace, requisito necessario e fondamentale per ricevere la Torà.
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