E nel settimo giorno Egli si riposò

Pensò di esser morto. Il silenzio, che era cominciato ieri, oggi aveva una dimensione in più una sorta di quiete, un riposo. Ieri aveva portato un improvviso cessare dei bombardamenti - il ruggito costante del bombardamento americano, il sibilo e lo shock dei proiettili, le raffiche intermittenti delle mitragliatrici - ed ora un silenzio ovattato posava sul campo di concentramento. Il silenzio giungeva come una benedizione, se fosse possibile immaginare una benedizione nell'inferno. Ma la sua volontà di vivere man mano rifluiva. Impotenza... e finalmente l'oscurità. Immaginava di incontrare i suoi cari, coloro che sapeva non avrebbe rivisto mai più. Correva verso di loro a braccia aperte... ma questi indietreggiavano, impallidendo.

Si rilassò. La mente cominciò a schiarirsi. La sua mente lucida, ancora vivida, trasmetteva, nella logica della sua fede in D-o - l'unica logica in un mondo impazzito - la sua ferrea volontà di vivere. Adesso sapeva dov'era. Era vivo. Ed oggi era Shabbat. E sentì una aspettativa, una speranza, una pace.

Molti Shabbatot erano passati durante il terrore nazista. Non ne aveva mai perso il conto. Oggi era il 5 maggio 1945. Ripensò alla tensione del Shabbat durante l'inverno '41-'42... Quel famoso inverno in Russia segnò il primo capovolgimento della guerra, ma lui non lo sapeva. Il suo compito era quello dell'arbeits-fuhrer, una specie di sergente civile, supervisore del lavoro di circa sessanta ebrei. Durante quell'amaro inverno, scavavano montagne di neve gelata, pulendo le strade dell'Ucraina per l'esercito tedesco in marcia. Circa venti uomini sotto la sua sorveglianza, erano vecchi ebrei osservanti. Decisero di fare tutto il possibile per osservare lo Shabbat. Con l'aiuto di altri del gruppo, lui li nascondeva. Alcuni rimanevano nascosti nelle fosse profonde ai lati della strada che stavano spalando; altri su alberi, rifugi abbandonati, tetti. E quando gli ufficiali tedeschi indagavano, egli mentiva per loro, col cuore in gola - “quello è malato, quell'altro nel bagno, quell'altro ancora, lavora in un altro settore.”

Mai aveva osservato lo Shabbat con sentimento così profondo e tanta felicità. Nonostante la temperatura sotto zero, il lavoro pesante e l'ansia, era osservante e felice. Mai avrebbe scordato ciò che Reb Mendel gli aveva detto. Reb Mendel - lo chiamavano “Der Malach”, l'angelo, per la sua soavità, la sua purezza, il suo grande sapere. Reb Mendel lo aveva guardato dritto negli occhi, mentre lo aiutava ad entrare nel nascondiglio e gli aveva detto, pensoso: “ Leib Hersh, adesso capisco che non fu un caso che i Shotrim furono designati per il Sanhedrin”. Commentari spiegano che il Sanhedrin, i settanta preminenti membri della più alta corte nel deserto, era composto da quelli che erano stati Shotrim, supervisori e poliziotti ebrei in Egitto. I Shotrim proteggevano gli ebrei che lavoravano ai loro ordini, subendo castighi al loro posto. Così, le parole di Reb Mendel lo sostenevano ancor oggi, nonostante fossero state dette tanto tempo prima.

Lo stesso fatto d'essere ancora vivo aveva del miracoloso, anche in un'epoca dove il miracoloso era luogo comune. Era stato trasferito nel campo di concentramento di Ebensee, come diceva la targa su uno dei cancelli a tensione elettrica. Non era un campo di morte “ufficiale” ma un campo di lavoro dove i prigionieri erano forzati a lavorare fino a morirne. I grandi blocchi prefabbricati, contenenti 360 prigionieri ciascuno in due grandi scompartimenti, erano nascosti tra gli alberi, nei varchi delle Alpi austriache. I prigionieri erano lì per scavare, entro questi monti, enormi fabbriche di munizioni che, così locate, erano camuffate e protette dalle montagne stesse.

Con gli altri 10.000 prigionieri, Leib Hersh rompeva con un fragile piccone e la sola forza del suo corpo la roccia della montagna. Col passare del tempo, il numero dei prigionieri salì a 40.000. Mari mano che si ritraevano dalle altre aree d'Europa, i nazisti evacuavano tutti i campi che potevano, prima che gli alleati potessero liberarne i prigionieri. Gli uomini dormivano adesso, quattro in ogni materasso a tre sezioni da 70 centimetri, che serviva da letto. Erano ammucchiati, teste e piedi, e non si potevano girare se non disturbando gli altri.

Un giorno di dicembre egli non ebbe più forza per lavorare. Cadde sopra il suo piccone che gli ruppe il palato e la cavità cranica. Fu trasportato fuori, quasi morto, e la triste notizia passò di bocca in bocca tra i suoi amici e restanti parenti, che non lo avrebbero mai più visto. Per miracolo, il piccone non aveva toccato le parti vitali della testa, tuttavia la sua vita era appesa ad un filo. Lo portarono all'infermeria - un luogo di “riposo” per i prigionieri talmente malati da non poter più lavorare; era il luogo del riposo finale per la maggior parte di coloro che vi entravano. Il giorno dopo, era ancora vivo. Fu esaminato dal Hauptschaarfuehrer, il medico nazista responsabile di tutto il campo. Anche quel cuore indurito rimase scioccato: “ È spaventoso che sia ancora vivo. L'opereremo per vedere come un essere umano possa sopravvivere in condizioni così gravi. Faremo un esperimento”.

D-o lo aveva scelto per la vita. Si sforzò per chiudere il buco nel palato con garza, affinché il cibo non gli andasse su per il naso. Quando non trovò più garza, mangiò sdraiato. Ma la sua mente rimase lucida nonostante il tremendo dolore. Vide centinaia di uomini arrivare e morire. L'unico fratello che gli era rimasto morì in un letto vicino, con un piede in cancrena. Aveva bevuto dell'acqua avvelenata del lavatoio, incapace di sopportare le torture della sete. I nazisti davano loro solo una tazza di caffè nero amaro al giorno e molte centinaia di prigionieri si erano uccisi, quando, incapaci di continuare a resistere, avevano bevuto l'acqua che sapevano avvelenata. Avevano perso la forza di lottare, di resistere, la volontà di vivere.

Fu proprio questa che mantenne, invece, Leib Hersh vivo. Egli aveva un amico, un avvocato. Infatti, prima dell'incidente, era sempre depresso, dicendo che nessuno poteva sussistere in quelle condizioni di vita. Leib Hersh lo incoraggiava continuamente, spinto dalla sua fede in D-o. Adesso, giacendo nell'infermeria seppe che l'avvocato era morto. Non era stato ferito e neppure si era suicidato. Semplicemente non vedeva più ragioni per continuare a vivere e così era morto. Il cessare della volontà di vivere significa la fine della vita stessa.

Trascorsero mesi, l'avanzata degli alleati era sempre più vicina. Leib Hersh ora si trovava nell'infermeria da più tempo che qualsiasi altro prigioniero. Un giorno, gli intimarono di scendere dal letto e lavarsi con acqua e sapone. Quando i pazienti tornarono ai loro letti, seppero che il sapone con cui si erano lavati era stato fatto coi corpi dei morti. Per Leib Hersh, questo avviso giunse troppo tardi. Quasi immediatamente, il suo viso si gonfiò assumendo proporzioni quasi doppie del normale, e si infettò riempiendosi di pus. In stato di coma, lo trasferirono all'infermeria delle malattie infettive.

Non c'era nulla che si potesse ancora fare per lui. Inoltre, questa nuova agonia estenuava le poche forze che gli erano rimaste e l'energia della mente. Non gli importava più di nulla. Quella notte era un venerdì. La sua mente indebolita ordinò al braccio di infilare qualche cucchiaiata di zuppa di buccia di patate in bocca, ma il braccio non gli obbediva. Adesso si rendeva conto che stava morendo. La sua mente poteva solo registrare la sensazione debilitante di un inutile peso. La fine era molto vicina.

Quel giorno, le bestie naziste avevano fatto suonare le sirene dell'allarme anti-aereo, nonostante gli aerei non passassero da un pezzo. Gli uomini si riunirono nel Appel, dove dovevano riunirsi due volte al giorno per essere contati. La mente precisa ma perversa dei tedeschi esigeva che i prigionieri che erano nel frattempo morti, fossero sorretti in piedi da quelli ancora vivi, finché durava la conta; così anch'essi venivano attirati nel crematorio. Questa volta dissero ai prigionieri che, quando la prossima sirena avesse suonato, tutti dovevano correre nelle caver ne scavate nelle montagne, per evitare i bombardamenti. I prigionieri capirono subito che trucco ci fosse dietro. Sarebbero stati uccisi dai gas. I maniaci nazisti consideravano più importante la distruzione di questi ebrei ancora sopravvissuti, del loro stesso naturale istinto di auto-conservazione. Con gli americani quasi alle porte, a poche ore di distanza, sarebbero stati catturati sicuramente, ma non senza aver concluso la loro demenziale missione di odio verso gli ebrei. Dalle fila dei silenziosi prigionieri, il grido di rivolta giunse, finalmente - “Non vi ascolteremo mai più!” Dopo poche ore i nazisti fuggirono.I prigionieri cominciarono a sperare.

Era Shabbat mattina. Per Leib Hersh la crisi era passata. Non sapeva come, ma era ancora vivo. I giornali annunciavano la data: Sabato, 5 maggio 1945! La notizia era scritta in grossi caratteri neri: PER I TEDESCHI È LA RESA!

Tuttavia per Leib Hersh e tanti altri come lui, era Shabbat. In questo momento, deponevano il fardello incomprensibile che la vita aveva imposto loro. Era giunto il vero momento del riposo.

Provava una specie di torpore, un tenue filo di sonno. La notte precedente Leib Hersh aveva visto la morte. Ma per un qualche miracolo era ancora vivo. La corrente, che veniva dalle generazioni anteriori era stata violentata ed aggredita ma non si era interrotta. Ebbe l'impressione di udire una cantilena lontana. Non poteva parlare adesso - il suo palato era forato, le sue parole incomprensibili: ma gli sembrava di ascoltare la sua propria voce, le voci profonde dei figli, quelle alte e dolci dei nipoti... e dei pronipoti... che avanzavano nei secoli... interminabili... mai ridotte al silenzio... indistruggibili. Queste voci intonavano il Kiddush con un'enfasi mai capita in passato:

Ed i Figli di Israele osserveranno lo Shabbat

Al fine di mantenere lo Shabbat per i loro discendenti come una alleanza eterna.