Anni di schiavitù, oppressori intenzionati a eliminare fisicamente e spiritualmente un popolo. Piramidi costruite con lavori forzati, bambini maschi annegati. Ordini impartiti da capi della stessa religione, divisi tra la paura degli aguzzini e la pietà per gli oppressi.

Nel buio, nell’abisso più totale, spunta una figura. Potenzialità da leader, umiltà da guinness. Mosè.

Un incarico pesante, una responsabilità vitale. Da lui dipenderanno le sorti di quel popolo travagliato e martoriato, schiavizzato dalla Potenza più forte di quell mondo. Un popolo a cui viene concessa sì la libertà, ma condizionata al sottoporsi alle leggi divine, diventando il popolo di D-o. A Mosè l’arduo compito di convincere gli ebrei. Di promettere loro che quell’identità ebraica causa della loro oppressione, è in grado di tramutarsi in un’identità portatrice di gioia e soddisfazione spirituale. Mosè accetta. Perché ha fede nel proprio popolo. Nella capacità della nazione ebraica di spogliarsi dalle vesti di cenere e ricominciare a sperare.

10 di Shvat 1951. Rabbi Menachem Mendel Shneerson accetta di assumere la guida del movimento Chabad. Sei anni sono passati dalla Seconda Guerra mondiale. Una guerra senza confini, folle e minuziosa, mossa soprattutto contro la nazione ebraica. Una guerra il cui abberrante scopo era l’eliminazione totale di un popolo. Una guerra in cui gli stessi ebrei, trasformatisi in kapò, portavano alla morte i propri fratelli. Una guerra il cui risultato naturale era scontato.

Ciò che non aveva ottenuto totalmente il Terzo Reich, sarebbe stato raggiunto attraverso il timore e la rabbia di alcuni superstiti. Il desiderio di spogliarsi di quell’identità ebraica causa dell’oppressione e della persecuzione e di tramutarsi in cittadini del mondo senza fede né radici.

Rabbi Menachem Mendel, il settimo rebbe di Lubavitch, sa tutto questo. È consapevole dell’enormità della tragedia che è stata. E vuole evitarne le quasi inevitabili conseguenze. Assume una leadership carica di responsabilità. Pesanti e vitali. Ma ha fede. Nel proprio popolo e nella capacità della nazione ebraica di spogliarsi dalle vesti di cenere e ricominciare a sperare. 10 di Shvat 1951. Un uomo di 49 anni vuole dimostrare al mondo che l’ebraismo non è un ricordo. Che la stella di Davide da pezza gialla umiliante appuntata al bavero della giacca è in grado di trasformarsi in un simbolo di orgoglio d’appartenenza a un’ identità eterna. Che accomuna milioni di persone sparse tra lo Zaire e la Cina, Gerusalemme e Roma. 10 shvat 2011.

Quell’uomo aveva ragione.

Gheula Canarutto Nemni