Purìm celebra la salvezza degli ebrei dall’annientamento, nel IV secolo A. E.V. Mordekhài, una delle figure di spicco della vicenda, ci viene presentato come un uomo straordinario, lo studioso per antonomasia e guida del popolo; una sorta di “uomo del rinascimento”, rispettato ed onorato dal suo popolo. Egli emerge dalla storia degli intrighi di palazzo con una vittoria politica, diventa addirittura vicerè di Persia. Il Talmùd però rivela un fatto poco noto: il consenso a Mordekhài non era unanime.

Il Ruolo Politico

La nostra attenzione viene anzitutto rivolta alla conclusione della Meghillà: “Mordekhài… era grande tra gli ebrei e gradito dalla maggior parte dei suoi fratelli…” (Ester 10:3). Sembrerebbe che alcuni dei suoi fratelli (anche se una minoranza) non lo amassero poi tanto. Il Talmùd rileva anche una seconda curiosità: Mordekhài viene menzionato tra i capi del popolo che tornarono in Israèl dall’esilio babilonese per dare vita alla seconda repubblica ebraica. Quando il Libro di Ezra enumera i capi del popolo, Mordekhài figura come quinto nome; nel successivo Libro di Nechemià egli figura come sesto personaggio elencato, come se fosse sceso di una posizione. Il Talmùd ci dice anche che alcuni esponenti del rabbinato non approvavano il nuovo ruolo pubblico di Mordekhài. Era un membro del Grande Sinedrio – la Corte Suprema di 71 saggi – una persona completamente immersa nella Torà e a un certo punto diventò un personaggio politico, ruolo che non gli permetteva certo l’esclusiva concentrazione nello studio che lo caratterizzava.

È un fatto che il coinvolgimento nelle faccende della collettività distrae dai propri traguardi spirituali. La guida di una comunità si preoccupa del benessere dei suoi membri a tutti i livelli; è un fardello che non permette di occuparsi solo di Torà.

Così, alcuni dei colleghi del Sinedrio non erano d’accordo sul nuovo “stile di vita” di Mordekhài. La sua osservanza restò intatta ed integra, ma essi sentivano che lui aveva sacrificato la totale immersione nello studio della Torà in nome del ruolo di guida politica. Per costoro era un grave errore e in questo senso egli “scese di una posizione”.

Scendere dalla Vetta

Mordekhài stesso, però, e la maggioranza del Sanhedrìn, presero una posizione diversa. Il Midràsh insegna che “sarebbe d’uopo che i Saggi del Grande Sinedrio… circolassero tra le città… ad insegnare agli ebrei…” (Tanna D'vei Eliyahu Rabbà 11). Quest’asserzione non è affatto ovvia. La Corte Suprema costituiva una sorta di casta esclusiva, composta di giganti spirituali ed intellettuali, che si riunivano sul Monte del Tempio a Gerusalemme – un luogo sacro che in quei frangenti conferiva al Sinedrio una condizione e una forza spirituale uniche. Solo quando si radunavano sul Monte del Tempio, ad esempio, potevano emettere le sentenze capitali. Eppure, secondo il Midràsh, sarebbe convenuto che questi giganti del culto scendessero dal Monte del Tempio per unirsi al popolo. In altre parole, i rabbini del Sanhedrìn non dovevano avere come unico scopo l’ascesa spirituale. Avevano senz’altro l’obbligo di studiare, pregare, e raggiungere vette più alte. Ma allo stesso tempo avevano la responsabilità di guidare la gente, anche se ciò poteva influire sul loro perseguimento spirituale.

Mordekhài fece una scelta. Avrebbe potuto scegliere di chiudersi in Yeshivà e dedicare ogni suo respiro alla Torà – e senza dubbio avrebbe desiderato fare solo questo. Ma non pensò a quello che lui voleva, bensì a quello che D-o voleva che lui facesse. Egli si accorse della necessità del popolo di avere un leader, e se ne assunse la responsabilità.

Questa è vera leadership. I capi genuini non sono persone che anelano ad essere al vertice, ad essere “il capo”; questa è megalomania. I veri leader sono persone che preferirebbero molto di più dominare se stessi che gli altri. Preferirebbero la pace mentale e la privacy che la vita privata consentirebbe loro. Ma vedono una necessità della collettività e sentono la responsabilità di farsene carico.

Di Rav Mendy Herson, per concessione di chabad.org