Mia madre è infermiera da 15 anni; l’ospedale in cui lavora è pronto, a determinate condizioni, ad accogliere pazienti che hanno contratto il virus Ebola. Di fatto, prendendosi cura di questi eventuali pazienti, lei stessa si metterebbe a rischio; d’altra parte, se si rifiutasse di curarli, perderebbe il suo lavoro e la sua abilitazione professionale.
Qual è la regola ebraica in questi casi?
Come tutti sanno, il virus Ebola (D-o non voglia) è una questione molto seria e tua madre ha ragione a preoccuparsi. Prima di tutto esaminiamo alcune idee di carattere generale. La vita è il bene primario da salvaguardare; ci viene comandato di non restare inerti quando viene versato il sangue del prossimo (Levitico 19:16) e i nostri Maestri affermano che “chi salva una vita, salva il mondo intero” (Talmùd, Sanhedrìn 37a). Ci sono però dei limiti e delle condizioni all’obbligo di salvare la vita altrui, soprattutto quando ciò comporta un pericolo.
Il Talmùd Yerushalmi racconta che Rabbi Imi fu catturato e portato in un luogo pericoloso. Rabbi Yonatàn disse: “Avvolgete il morto”, per dire che era come morto poiché non c’erano le condizioni per poterlo salvare. Rabbi Shimon ben Lakish rispose: “Ucciderò o sarò ucciso, ma andrò con forza a salvarlo”. Alla fine, Rabbi Shimon riuscì a salvare Rabbi Imi (Talmùd Yerushalmi, Terumòt 8:4). Basandosi su questo episodio, alcuni sostengono che bisogna fare di tutto per salvare una vita, anche mettendosi in pericolo.
Il Talmùd Bavlì, invece, cita il verso “Osserverai i Miei statuti e le Mie leggi che l’uomo compierà e attraverso cui vivrà” (Levitico 18:5) e spiega che i precetti devono essere rispettati quando esiste la certezza della vita, non quando metterli in pratica comporta il rischio di morire. Come in altri casi analoghi di divergenza tra il Talmùd di Gerusalemme e il Talmùd Babilonese, la legge è stata stabilita secondo il Talmùd Babilonese. Infatti, secondo alcuni, ci sono molti casi in cui è perfino proibito mettersi in pericolo di vita. Analogamente, lo Shulchàn Arùch (il codice di leggi ebraico), stabilisce che se scoppia una piaga in un determinato luogo, bisogna evacuarlo prima che la piaga si diffonda.
Rabbi Eliezer Waldenberg, però, scrive che questa ingiunzione non si applica al personale sanitario professionista, a cui è permesso – ed è anzi una grande mitzvà – curare persone infette, anche se questo comporta esporsi al rischio di contagio; il personale medico deve prendere tutte le precauzioni possibili per minimizzare il rischio. Altre autorità si spingono ancora più in là: dal momento che il personale medico ha intrapreso questa professione di sua spontanea volontà, consapevole dell’esistenza di rischi, non solo è permesso curare i pazienti ma medici e infermieri sono obbligati a cercare di salvare i malati. Se la struttura sanitaria è adeguatamente attrezzata a proteggere il personale dal contagio, i medici non possono abbandonare i loro pazienti (vedi Nishmat Avraham, vol. 2 p. 267 e Rabbi Shmuel Wosner, responsum Shevet Halevi 8:251:7).
Essendo tua madre un’infermiera specializzata che è in grado di proteggersi mettendo in atto tutte le procedure del caso, anche se questo comporta un rischio è comunque una mitzvà non abbandonare il suo lavoro. Se però le probabilità di contagio sono molto alte (e non minime), non è tenuta a mettersi in pericolo. Nel valutare e soppesare i fattori di rischio, i Maestri avvertono che non bisogna esagerare nel salvaguardare la propria vita a scapito di quella dei pazienti in pericolo.
Di Yehuda Shurpin, chabad.org
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