Camera 312, terzo piano dell’ospedale Rambam a Haifa. Due pazienti di una certa età in convalescenza da un’operazione chirurgica.
Il Sig. Benshalom è il segretario di uno dei più noti kibbutzìm, mentre il sig. Ganon è direttore di un’importante azienda di import-export. I due uomini hanno molto in comune: vivono entrambi in Israele da molto prima del 1948, entrambi assistettero e parteciparono alla nascita dello Stato d’Israele e al suo fenomenale sviluppo. Trascorrevano ore a chiacchierare. Il sig. Ganon era molto impressionato dalla popolarità del suo compagno di camera. Sembrava che tutti i membri del kibbùtz venissero a trovarlo. Due giovanotti, in particolare, attirarono l’attenzione del sig. Ganon: venivano praticamente ogni giorno e Benshalom sembrava apprezzare molto la loro compagnia. Erano diversi dagli altri visitatori. Il kibbùtz del sig Benshalom era collocato politicamente molto a sinistra, molto laico, diciamo pure molto antireligioso. Ma questi due giovanotti portavano la kippà, un inizio di barba, vestiti sobri, con degli tzitzìt. Da dove conoscevano il sig Benshalom? Come era nata la loro amicizia? Un giorno, il sig. Ganon non poté più trattenere la sua curiosità: «Mi scuso se mi immischio in affari non miei, ma chi sono questi ragazzi ortodossi che vengono a trovarla tanto spesso?»
Benshalom sorrise, come se avesse aspettato questa domanda da tanto tempo. Si sistemò meglio sui suoi cuscini e cominciò a spiegare: «Sono il fiore all’occhiello del nostro kibbùtz, i ragazzi di cui siamo più orgogliosi. Ma per capire tutto ciò devo raccontarle una lunga storia.
Durante la Shoah, una madre e sua figlia, ultime superstiti di tutta la famiglia, furono deportate. Si stringevano l’una contro l’altra, per paura di essere separate. Ma quando arrivarono ad Auschwitz, la madre fu mandata da una parte e la figlia dall’altra. Mentre la madre fu spinta nella fila sbagliata – quella che era diretta alle camere a gas – supplicò la figlia: “Promettimi, che se sopravvivi a ciò che ti aspetta qui e ti sposi, starai attenta ad osservare la Taharàt Hamishpachà”. La figlia promise. Non sapeva neanche di cosa si trattasse ma ripeté le parole “taharàt hamishpachà” senza sosta. Le ripeteva sempre, ogni giorno, erano diventate lo scopo della sua vita, una ragione per battersi e per mantenersi in vita ad ogni costo. Queste parole, che non capiva, erano diventate l’ultimo legame con un mondo di santità, di pace, di serenità; il mondo della sua famiglia sterminata, un mondo che non esisteva più ma che giurò di eternare. Ciò che subì, quanto ne soffrì – nessuno è in grado di descriverlo. Ma sopravvisse.
Quando finalmente la guerra finì, fu presa in carico da organizzazioni ebraiche che le proposero di andare in Terra Santa e di partecipare alla gloriosa avventura che doveva condurre alla creazione dello stato ebraico. Fu sistemata nel nostro kibbùtz e, molto presto, si abituò al nuovo stile di vita. Gli anni passarono.
Quando finì i suoi studi all’università, uno dei suoi amici del kibbùtz – il sottoscritto – le chiese la mano e lei accettò di sposarmi. E lì si ricordò delle ultime parole di sua madre, “taharàt hamishpachà”. Le famose parole che rimbombarono per tanto tempo nella sua mente, parole che l’avevano aiutata a sopravvivere. Ora le toccava scoprire che cosa significassero. “Spero che tu accetterai una sola condizione alla nostra unione”, mi disse. Ho promesso a mia madre di rispettare la Taharàt Hamishpachà quando mi sarei sposata. Ignoro di che si tratta ma sono risoluta ad obbedire all’ultima volontà di mia madre”.
La ammiravo per la sua sincerità e, sapendo che questa promessa l’aveva aiutata a sopravvivere, accettai. Smosse terra e monti per trovare la persona che l’avrebbe guidata nella via che aveva scelto. Trovò la persona giusta che le spiegò in che consistevano queste parole, ovvero nella purità familiare che aiuta una coppia ebraica ad amarsi e rispettarsi, ed era felice di essere stata presa per mano e di aver trovato la tradizione che i suoi nonni e avi avevano sempre rispettato. Legata di nuovo alla tradizione familiare e alla storia del suo popolo, si preparò al matrimonio con gioia e fiducia. Continuammo a vivere nel kibbùtz dopo il matrimonio. Niente ci distingueva dagli altri chaverìm (membri della comunità agricola, fondata sulla divisione assoluta ed equa del lavoro e dei guadagni) con la sola eccezione dell’adesione scrupolosa e cavillosa alle regole della purità familiare».
Il sig. Benshalom si fermò: «Vede, caro amico, questi due ragazzi sono i nostri figli. Sono la fierezza di tutti i chaverìm. Sono tutti impressionati dalla loro raffinatezza e nobiltà d’animo, dalla purezza del loro comportamento e la sincerità del loro impegno. Tutti i chaverìm li rispettano perché hanno scelto uno stile di vita molto più osservante. E ho tutte le ragioni di credere che il rispetto della Taharàt Hamishpachà ne è la fonte principale.
Mia suocera – che purtroppo non ho conosciuto – ci ha regalato con questa ultima volontà il più bel dono di nozze».
Tehila Abramov e Dvora Leah Adler
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