Questa è una cronaca vera dedicata alla messirat nefesh mamash - l'auto-sacrificio reale, totale e spirituale - di migliaia di anonime donne Chabad che, a dispetto delle dure prove dei regime sovietico, hanno mantenuto ed educato i loro figli, insieme ad innumerevoli ebrei strappati alle loro famiglie, alla luce della Torà e delle sue Mitzvot; mentre i loro mariti, padri e fratelli, si trovavano in prigione, accusati di attività antirivoluzionarie, per aver obbedito alla Torà di D-o. Tutti i personaggi ed i fatti descritti sono reali.

Era l'inverno del 1949. M'incontrai per la prima volta con Nehama Braha, di benedetta memoria, qualche tempo prima che sfuggissì alla polizia. Le strette viuzze di Mosca, dove cercavo riparo nelle file di gente che, a sua volta, tentava di comprare verdure deteriorate e vecchie ossa, non erano ancora sufficientemente affollate per me. Al mattino, pregavo: “mi sarà concesso giungere a sera?”, ed alla sera, “sarà possibile vedere il giorno?”

Temendo le chiacchiere dei vicini, non potevo essere un ospite regolare e passare la notte nello stesso luogo per molto tempo. Lasciata la generosa protezione di Ben-Tziyon Gorelik, finalmente trovai dove andare l'appartamento di due camere di zio Reuven e zia Basya. Quando entrai nella cucina di Basya per la prima volta lei mi invitò a lavarmi le mani, sedermi al grande tavolo e deliziarmi di patate arrosto, facendomi sentire come a casa della nonna.

Tutte le mattine Basya impastava il pane sul massiccio tavolo della cucina, poi lo cuoceva, panini profumati che vendeva nei mercati agli affamati moscoviti. Nonostante questa impresa illegale la ponesse in serio rischio, Basya non aveva altra scelta! Infatti manteneva non solo se stessa, ma anche le famiglie di molte altre donne i cui mariti eran morti in guerra o erano in prigione.

Un giorno, a notte alta, Basya sedeva al tavolo di cucina servendo il tè da un rilucente samovar di rame, ai suoi ospiti, e raccontava storie dei meravigliosi tempi passati, e di quelli terribili attuali e di quelli, migliori, che sarebbero giunti, quando il silenzio ovattato dalla neve nella fredda notte lì fuori, fu rotto da passi inattesi zia Basya indossò la sua fufaica (un manto di cotone), e corse fuori.

Gli allegri suoni che seguirono ci calmarono immediatamente. Quasi subito, Basya tornò nella accogliente cucina accompagnata da una donna minuta, avvolta in una vecchia fufaica, che indossava stivali di feltro e che in testa portava un grande scialle, irrigidito dall'umidità congelata dei suo alito. “Facciamo un pò di tè caldo e mangiamo qualcosa”, disse Basya.

Quando la misteriosa ospìte si tolse lo scialle ed il mantello, vidi una donna energica di circa cinquant'anni, la cui faccia, che doveva esser stata bella era devastata da rughe incredibili. Il suo nome era Nehama Braha (Nina Simonova Ricova). Per quasi tutto il tempo di quella settimana che rimase con noi, essa e la zia sedevano insieme sussurrandosi cose misteriose.

All'alba, quando mi svegliavo, nel mio giaciglio accanto al fuoco, udivo zia Basya pregare in piedi, in Yiddish, lì accanto. Supplicava il Creatore di proteggere la sua famiglia ed una lunga lista di donne sfortunate, le cui speciali richieste enumerava. Al termine, sospirava profondamente, metteva denaro nel suo bossolo di Tzedakà, e mormorava qualcos'altro. Solo dopo questo rito cominciava a lavorare sfornando agilmente panini che riempivano la casa di un'aroma celestiale.

L'ospite, dall'altra parte della stanza, si alzava all'alba. In piedi dinnanzi alla finestra, apriva il suo cuore al Guardiano delle vedove. Muoveva le labbra silenziosamente. Ogni tanto gemeva o si asciugava le lacrime.

Ella si abituò a me, finché, un certo giorno, mentre sedevamo intorno al lucente samovar che borbottava soavemente, ascoltando le storie che raccontavamo, prese coraggio e raccontò, con dettagli affascinanti, la verità sulle sue origini.

“Ero appena una bimba ed i miei genitori erano molto ricchi”, disse Nehama Braha. “C'erano altre dodici famiglie ebree in quella parte del paese. Oltre alla stanza nell'attico che era riservata ad ospiti speciali, come Rav Yechiel Halperin, avevamo una dependance per gli ospiti, a sé stante, nel patio, vicino alla Sinagoga, dove alcuni ebrei che lavoravano per mio padre, pregavano e studiavano notte e giorno. Avevamo cavalli e vacche, galline e campi. Dietro la casa, un giardino, circondato da ciliegi, meli, peri ed alberi di albicocche.

Tra il giardino ed il bosco di betulle c'era un gran lago, dove oche ed anatre nuotavano tra ninfee e giunchi, dove uccelli selvaggi venivano da lontano no a fabbricare i loro nidi.

Non molto lontano dalle nostre terre, si stendeva una foresta. Lì, mercanti ebrei di Riga, Vitebsk ed altre città lavoravano il legno. Avevano capanne ed una Sinagoga nella foresta. Tra i mercanti c'erano chassidim, che ogni tanto ci visitavano, specialmente durante le feste hassidiche. La nostra casa era sempre aperta ad ospiti insperati, oltre che ai consueti. Eruditi Talmudici, persone comuni e semplici, così come Tzadikìm occulti, ci frequentavano ed usufruivano della nostra ospitalità.

L'ospite che più profondamente rimase impresso nella mia memoria, era un ebreo alto e magro, con una barba di brillante color rosso, ed abiti che sembravano dipinti sulla sua persona. Molto spesso digiunava tutto il giorno. Quando mangiava, si trattava di solo pane di segale ed acqua fresca del pozzo.

Dormiva su una panca in Sinagoga, senza mai separarsi dal suo violino. Recitava continuamente Tehillìm (Salmi), ma non udivamo mai la sua voce, solo la delicata supplica del suo violino, che chiamava, s'agitava e piangeva, mentre il violinista si dondolava come un giunco al vento. Quando egli suonava, gli uccellini e le rane tacevano. Gli alberi si congelavano.

Non conoscevamo il suo nome; certe volte egli spariva per un anno ed eravamo molto felici al suo ritorno. Dicevano che discendesse da una ricca famiglia, che abbandonò quando divenne di sinistra. Ciò rese molto infelici i suoi genitori, Quando seppe che suo padre era morto cominciarono i suoi rimorsi. Da allora, si mise a pellegrinare, tentando d'espiare.

Tra i nostri ospiti c'erano anche mendicanti erranti, che si fermavano uno o due giorni per riposarsi. Mio padre dava loro generosi contributi ed ancor più mia madre.

I miei genitori mi hanno insegnato a donare a tutti, ad abituarmi alla carità. Gli ospiti pregavano tutti i giorni per molte ore. Dopo le preghiere, mia madre offriva loro bibite e dolci al miele, lasciandoli riposare e conversare tra loro.

A mezzanotte, si alzavano per reci tare tristi preghiere, piangendo la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Mi piaceva motto ascoltarli ed osservarli. Mia madre, sia benedetta la sua memoria, m'insegnò a servire i nostri ospiti con attenzione.

L'avvenimento più importante era quando, una volta all'anno, l’amato Rav Yechiel Halperin veniva a portarci la benedizione del Rebbe, dalla città di Lubavitch. Tutti noi ci riunivamo nella gran sala che si usava solo di Shabbat e per le feste. Venivano chassidim dalle città vicine e godevano dell'incontro sino all'alba. Davano spiegazioni sulla chassidut e raccontavano storie con spirito esaltato.

Rav Yechiel cantava commoventi melodie con una voce che pareva un violino. Tutti lo accompagnavano con grande devozione, elevati alle più alte sfere di gloria dei racconti chassidici.

Papà restava in piedi, pregando, col volto in fiamme. Allora, al culmine dell'estasi, giovani e vecchi irrompevano in una danza in circolo, tenendosi per mano, diventando un unico cuore. Come i figli d'Israele ai piedi del Monte Sinai. Alcuni ospiti raccontavano storie in modo così magistrale che io potevo vederne i dettagli con gli occhi della mente, e continuare a sognarle”.

“Io ero solo una bimba”, ripete Nehama Braha. “i miei genitori mi amavano e si dedicavano a me”.

Mentre crescevo, prima e dopo la prima ma guerra mondiale, i venti della rivoluzione cominciarono a soffiare. Cominciarono i problemi. 1 gentili cominciarono ad assillarci, spingendoci a partire. Ci trasferimmo in città, prendendo in affitto due camere con cucina, che dividevamo con il contadino, che aveva dovuto fuggire anche lui. Sua moglie e mia madre piangevano insieme la perduta felicità e il benessere. lo ero molto turbata. Non mi trovavo a mio agio. Con nostalgia, seguivo le rotaie attraverso i.campi, che ricordavano vagamente il paesaggio dei nostro villaggio. Papà era occupato nel tentativo di recupero di vecchi debiti, la sua salute era malferma. Ma il suo maggior problema era trovarmi marito. Voleva un shidduch perfetto.

Un giorno papà tornò dalla Sínagoga accompagnato da un ebreo, grasso, vestito di abiti che dovevano esser stati, un tempo, eleganti. Lo straniero parlò molto, gesticolando. Papà ascoltò con attenzione e poco dopo, gli mise in mano dei soldi. Egli era il mio shadchan (combina-matrimoni).

Nehama Braha fece una pausa per sorbire un pò di tè bollente. Un'altra ospite di zia Basya quella sera, Miriam, sposa di Rav Shmuel Leib Levinzal e figlia dell'eminente chassid Meir Simcha Chen, intervenne nella conversazione.

”Se parlate di shidduchim, vi racconterò del shidduch di mia sorella:

Una volta, mio padre incontrò un vecchio amico nella città di Lubavitch che gli disse: ‘Vedi, Rav Meir Simha, io ho un figlio e voi una figlia. Combiniamo’. Dopo aver riflettuto un momento, mio padre disse: ‘Perché no?’.

Un giorno, poco tempo dopo, mentre mia sorella si dava da fare nel nostro negozio, arrivò una carrozza. In questa era seduto un giovane ebreo, di bell'aspetto. Mia sorella capì subito di chi si trattasse. Corse a dirlo a mio padre, che si riposava nella sua stanza, dopo aver pregato. Egli corse a lavarsi le mani e a sistemarsi le peiot (boccoli) dietro le orecchie. Mia sorella si rese presentabile e preparò la tavola, con tanto di tovaglia bianca ed il pasto. Anche dopo tutto pronto continuò ad agitarsi, poiché ben sapeva di cosa si sarebbe parlato. E, senza dubbio, dopo qualche parola su come stava il Rebbe, e dei più e dei meno, sentì il giovane dire, Nu, Rav Meir Simcha, che cosa ha da offrirmi?.

“Cosa intendete? ” replicò papà.

“Abbiamo bisogno di abiti, casa, utensili domestici e mobili”, disse l'ospite.

“Quanto costerà tutto questo? ”, chiese mio padre.

“Cosa vuoi dire quanto? - una camera da letto costa molte centinaia di rubli, e così una sala da pranzo ed una cucina e, sia chiaro, abbiamo anche bisogno di uno studio e di una sala di ricevimento, tutto sommato siamo a 1.100 rubli. ”

L'espressione di mio padre cambiò totalmente. Dopo un certo silenzio egli disse: “No, amico mio, non combineremo niente”.

“Ma è una buona combinazione” disse l'ospite. “Mi assumo io le spese”.

“No, amico mio” disse papà. “Non è per il denaro. Cerca di capirmi. Molti giovani di Yeshivà si riuniscono in casa mia. Bevono e danzano. A volte, rompono il tavolo. Quindi, il giorno dopo, la mando a riparare per mezzo rublo. Alcuni tra questi ragazzi amano danzare sul tavolo che, a volte, si rompe. Chiamo Yankele, il falegname, e lo ripara per un rublo. Nessun ebreo potrebbe entrare in questo appartamento lussuoso che mi hai descritto con servizi dipinti e mobili cari. Non sono d'accordo per questo matrimonio. Non è per me.”

Nehama Braha finì il suo tè e continuò la storia della sua vita:

I fatti si succedettero in fretta. Papà si mise in viaggio per visitare il mio aupposto fidanzato ed il padre di questi, Rabbino di quella città. Il mio fidanzato era orfano di madre. Pochi giorni dopo mio padre tornò emozionato e pieno d'ammirazione per il giovane, suo padre e la loro onorata famiglia. Essi erano chassidim dal tempo del primo Rebbe di Chabad. Il soprannome della famiglia era Ribok (che, in russo, significa pesce) dovuto a generazioni anteriori di geni talmudici che, invece di assumere il ruolo di rabbini, eran rimasti pescatori. Fui molto commossa. Volevo allontanarmi, ma avevo paura di perdere una sola parola. Dopo che finì di parlare, mio padre mi chiese la mia opinione.

Un giorno, qualche settimana dopo, mio padre indossò i suoi abiti del sabato e andò a ricevere i nostri ospiti. Rimasi ad aspettarli in finestra, spiando da dietro le tende. Emozionata com'ero, non riuscii a coglierne l'espressione, quando finalmente arrivarono. Mia madre era occupata nel riceverli, e mio padre conversava con loro così che, quasi si scordarono di me.

Quando mi chiamavano, stavo tremando. Nell'aprire la porta della sala quasi gridai. Il volto dei mio futuro sposo risplendeva come quello di un angelo, un Tzadik, un erudito di Talmud.

Lo spirito che aleggiava intorno al tavolo era così gradevole, che mi rilassai. Vergognosa di posare gli occhi su Berl, il mio promesso, mi permettevo solo qualche occasionale occhiata con la coda dell'occhio. Quando i nostri sguardi s'incrociavano capivo che egli mi apparteneva.

Il giorno dopo, molta gente venne alla festa di fidanzamento. Mio suocero pronunziò parole di Torà sull'importanza di mantenere una casa ebraica in quei tempi turbolenti. Parlò dei significati occulti del concetto che la sposa d'un uomo è il suo focolare e del proposito unico del matrimonio, che è di crescere i figli al servizio di D-o.

Tutto era pronto per il matrimonio. Gli invitati cominciarono ad arrivare, parenti e rabbini delle città vicine. Fui felice di ricevere i nostri ex vicini del villaggio. Vennero gli antichi ospiti della nostra casa. La mia felicità fu completa quando apparve il violinista dalla barba rossa. Questa volta, suonò una melodia nuova ed allegra per me. Per la prima volta in vita mia, udì il suono della sua voce roca urlare Mazal Tov, Mazal Tov, sorridendo.

La piena allegria dei partecipanti al nostro matrimonio si prolungò durante tutta la settimana delle Sheva Berachot, le sette benedizioni speciali recitate durante la prima settimana di matrimonio. I giovani della Yeshivà usarono le Sheva Berachot come un'opportunità per convocare riunioni hassidiche e fortificare il sodalizio con la Torà. I Rabbini proferirono discorsi, cantori intonarono melodie, vecchi e giovani danzarono. Queste celebrazioni avvennero in tempi di serie persecuzioni, l'anno dopo che la nuova politica economica di Stalin fu rigettata da coloro che l'avevano proclamata, emarginando la classe media (di cui facevano parte molti ebrei) che aveva prosperato con essa. Due settimane dopo il matrimonio, ci preparammo per andare a casa, nella nuova città che non avevo ancora visto. Ero ansiosa per una nuova vita, per lasciare la città. Un vecchio amico del villaggio, si offrì di portarci sin lì, con la sua carrozza. Il giomo della partenza, i vicini ci accompagnarono per un tratto, benedicendoci.

Il viaggio di sei ore in carrozza fu estenuante. Anche se, decidendo di non andare in treno, mi ero potuta sentire ancora una volta in mezzo alla natura. La mietitura era terminata ed i covoni si ammassavano lungo i villaggi. Da lontano, si udivano allegre canzoni popolari. La strada si snodava tra folte foreste di sempreverdi, frammisti a betulle ed arbusti di frutti neri e rossi. Come sono grandi le opere di D-o!

Sul finire del giorno, mio suocero e gli anziani della città ci ricevettero con pane e sale. Gli amici di mio marito Berl ci ricevettero con una canzone.

La mia nuova casa era spaziosa, tre camere con una bella cucina ed un grande cammino. Le pareti del salone erano ricoperte da libri. Mio suocero passava lì la maggior parte del giorno, studiando e scrivendo.

Subito assunsi il mio nuovo ruolo di direttrice della casa. La prima volta che uscii nella strada principale, dove vivevamo, bimbi ed adulti spiavano da ogni canto per vedere la nuova sposa del loro Rabbi.

La nostra cittadina era simile ad altri villaggi della Russia bianca. La strada principale si estendeva più o meno per un km e mezzo, con molte viuzze che si stagliavano in tutte le direzioni. Le persone erano semplici ed innocenti, si alzavano presto per recitare i Salmi prima di andare in una delle due piccole Sinagoghe della città. Dopo le preghiere serali, si riunivano per ascoltare letture sulla legge, l'etica e le tradizioni popolari, dal libro Ein Yaacov. Il Sabato, apprendevano anche una pagina di Ghemara e di filosofia chassidica. La maggior parte degli ebrei della città si sforzava obbedire ai comandamenti, tanto ai semplici che a quelli più difficili, e teneva rigorosamente, di contenere le parole per non cadere in inutili intrighi. Onoravano il loro Rav e gli anziani.

E la città fu così per generazioni e generazioni. Ma quando io vi arrivai, stava già mutando. Sotto l'influenza della guerra e della rivoluzione, i diseredati cominciarono a sollevarsi, turbando i proprietari terrieri ed i benestanti. Nel mentre di questo rapido mutamento, tre persone s'infiltrarono nella nostra vita. Una era Mordecovits che, vergognosamente, era capo della Yevsektsia (il Contingente Ebraico del partito comunista, la cui funzione era di annicchilire la cultura ebraica). Già sionista di sinistra nel Minsk, aderì ai Bolscevici e continuò la sua lotta prendendo posizione contro la religione. Aveva un amico che si chiamava Rashin, tarchiato, che gracídava come un corvo. Le grossi lenti degli occhiali di Rashin posavano sul suo naso adunco come quello d'un rapace. In passato, aveva studiato nella Yeshivà di Sluts, ma adesso i Bolschevichi lo avevono scelto per dirigere una scuola pubblica comunista, insieme a Mordecovits. Inoltre, Rashín era editore di un nuovo giornale, il Bezbozhnik ( l’Apostata). In poco tempo, tutta la città conosceva e temeva questi due individui. Il terzo, appena giunto, era un ebreo Ucraino; scuro di capelli. con una rada barbetta e piccoli occhi. Inclinava la testa da un lato ed usava sempre un cappello, come se fosse un giovane Tzadik. Il suo nome era Ghershunov. Era come una zanzara, sempre pungente, ma mai allo scoperto. Sino all'arrivo suo e di sua moglie nella città, la vita era stata tranquilla.

La prima volta che vidi Ghershunov fu durante il kiddush celebrato in casa nostra in omaggio agli anziani della città. Subito, sentii in cuore che egli era un traditore ed un ladro. Quando sua moglie Perl mi abbracciò e mi baciò, sentii un brivido lungo la spina dorsale.

Dopo ciò Perl cominciò a frequentare regolarmente la nostra casa, interferendo in tutti i nostri fatti privati e familiari. La prima volta che venne, mio marito mi disse di non farla entrare. Non seguii il suo consiglio, ma ben presto non potei più sopportame la presenza. Notando quanto turbasse l'anima pura e delicata di mio suocero, giunsi infine chiederle, delicatamente, di non visitarci così assiduamente. Si offese. Da quel momento in poi, i Ghershunovs tentarono di vendicarsi di noi, cominciando da mio suocero, che riposi in pace.

Sparsero in giro la voce che il Rabbino era sospettato di appropriarsi di denaro pubblico. Fu un colpo per la salute di mio suocero. Un Shabbat mio marito Berl salì al pulpito ed espose pubblicamente la falsa accusa. I Ghershunovs ribatterono. Iniziò una guerra aperta. I mattinieri non si alzavano più così presto per recitare salmi, bensì per seguire la polemica. Di sera, invece di andare in Sinagoga per udire Ein Yaacov, le persone si riunivano per udire la ‘terribile perversità’ da poco scoperta.

Una caricatura sinistra di mio suocero apparve su Bezbozhnik, come illustrazione di un articolo calunnioso. Tutta la città era in tumulto, ed io sentivo che il disastro s'approssimava.

Un giomo mio suocero era appena giunto dalla Sinagoga e s'apprestava a lavarsi le mani, quando un messaggero del maledetto Mordecovits irruppe in casa nostra per tradurlo immediatamente al quartiere generale del Consiglio. Da quel giorno, mio suocero fu allontanato e non tornò mai più. La sentenza fu di tre anni di esilio intemo per attività controrivoluzionaria. Ghershunov vinse. lo sapevo che mio marito Berl sarebbe stato il prossimo, ma egli non ascoltava i miei sospetti. Le leggi dello stato permettevano lo studio della Torà, egli mi assicurò e divenne più attivo con l'incoraggiamento del Rebbe di Lubavitch affinché tutti gli ebrei seguissero la Torà. All'improvviso seppi che mio padre era malato. Mi affrettai a visitarlo. Lo trovai disteso ad occhi chiusi, che chiedeva se io fossi già arrivata. Mi avvicinai al suo giaciglio, egli mi accarezzò la mano con la sua mano fredda. Aprì gli occhi stanchi tentando di dirmi qualcosa. Mi curvai su di lui. Con voce flebile mi disse: “Figlia! Ricordati di tutto ciò che ha visto in casa dei tuoi genitori. Comportati sempre come io mi sono comportato con te. Perdonami. Addio”.

Ancora non ci eravamo ripres i da mesi di questo dolore quando, due mesi più tardi anche mia madre ci lasciò per sempre.

Distrutti, tornammo a casa, dove un'ennesima preoccupazione ci attendeva. Non c'erano lettere di mio suocero. Dopo grandi sforzi, scoprimmo che era stato trasferito in un campo di lavoro vicino a Ribinsk. Eravamo isolati, senza amici. Casa nostra era vuota.

Nessuno veniva a visitarci, se non di notte, qualcuno che apriva la porta e perquisiva la casa con la sua lanterna. Era un membro della Yevsektsia, che cercava stranieri.

Ghershunov, intanto, tesseva le sue trame. Si auto-elesse capo della comunità ebraica e della Sinagoga, così che, coloro che lo temevano non osavano andarci. Molti giovani fuggirono dalla città, abbandonando i vecchi, che ci chiesero protezione. Invidiandoci e non ancora soddisfatto dei guai che ci aveva causato; Ghershunov cominciò a prepararci una trappola per il mio caro marito, che non era abbastanza cauto. Berl andava senza timore in giro per la città, ínsegnando ai bambini, mantenendo in funzione il bagno rituale (mikvè) e facendo il lavoro del Shochet che era, già da tempo, sparito. Mordecovíts e Rashin ci avvisarono che era giunto il tempo di por fine al gioco antirivoluzionario della religione. Alzando il pugno in segno di vittoria, Ghershunov minacciò di espellerci dalla città.

Una notte, mentre mio marito lavorava ai manoscritti di suo padre, udimmo bussare con forza. Poliziotti irruppero in casa, cercarono minuziosamente in tutte le camere, confiscando tutto il nostro vasellame, gioielli ed i manoscritti di mio suocero. Portarono via anche mio marito. Le mie lacrime e la mia indignazione non servirono a niente. Lo portarono lontano e non lo vidi mai più.

Non ho mai saputo dove sia stato sepolto. Mio suocero - così mi dissero - sparì anche lui.

Rimasi sola, distrutta e per di più incinta. Diedi alla luce un frutto prematuro - un figlio che non conobbe mai suo padre. Vivevo nell'ostracismo. Le uniche persone che venivano a visitarmi erano una vicina che faceva l'ostetrica, ed il fedele amico di mio suocero, Efrayim Shlomo e sua moglie Etel. Mentre giacevo ammalata a letto Efrayim Shlomo accendeva il forno e si prendeva cura del neonato.

Venne un Mohel dalla vicina città per fare la circoncisione, ma solo con gran difficoltà riuscimmo a mettere insieme un Minyan di dieci uomini. Diedi a mio figlio il nome Berl. pur non essendo certa del destino di mio marito”.

Nechamà Bracha abbassò gli occhi trattenendo a stento le lacrime. Dopo un lungo ed intenso silenzio, riuscì a controllare l'emozione. Scuotendo la testa come se volesse liberarsi dei ricordi sgradevoli, continuò la sua storia:

“A poco a poco mi ripresi e ricominci ai a vivere. Il salmo 119 dice che il tempo di lavorare al servizio di D-o è proprio quando la Torà stà per essere violata. Mio suocero non era più tra noi. Ed anche mio marito, per quanto avesse continuato a lottare, se ne era andato. La nostra fonte di forza e coraggio, il Rebbe di Lubavitch, era in prigione. Potevo permettermi di sedermi incrociando le braccia?

Il mio primo sforzo fu quello di trovare uno Shochet che venisse segretamente di notte a macellare qualche pollo e una vacca, al fine di evitare che gli ebrei mangiassero tarèf. Misi al posto il mikve e lo mantenni funzionante. Insegnai Chumash e Siddur ai bambini perché apprendessero le leggi della Torà e sapessero come pregare. Cominciai ad avere sempre più stima da parte della gente, ma la Yevsektsia ci spiava ad ogni passo.

Ghershunov ed i suoi amici osservavano ed apettavano. Quando il piccolo Berl giunse in età scolare, mi controllarono.

Rav Efrayim Shlomo mi aiutò a crescere Berl in modo puro insegnandogli. Mio figlio dimostrò ben presto d'avere un gran talento, assorbendo rapidamente le lezioni. Fui felice di non avergli dato la vita invano. A sei anni, Berl cominciò a studiare Ghemarà. Rav Efrayim Shlomo dedicava la maggior parte dei suo tempo a mio figlio. Un vecchio intelligente ed allo stesso tempo un magnifico maestro, con occhi azzurri brillanti come un lume. Egli era capace di trovare un esempio reale, edificante per l'anima, ad ogni lezione. Mi piaceva rimanere nella camera vicina ad ascoltare ciò che studiavano. Ricordo come egli spiegò a Berl la differenza secondo la legge ebraica, tra il potere dell'individuo e l'autorità della maggioranza: un ebreo deve imporre dei limiti al suo cuore ed alla sua mente, perché mai soccombano ad un potere estraneo.

A nove anni mio figlio conosceva centinaia di pagine di Talmud a memoria. Ma nove anni erano anche l'età in cui un bimbo doveva essere registrato in una scuola pubblica. Per mia fortuna una dottoressa russa, timorosa di D-o, mi fornì documenti ufficiali attestanti che mio figlio non era sufficientemente in salute per partecipare al programma scolastico locale.

Realmente. il mio Berele era molto delicato.

Il capo della Yevsektsia ed il direttore della scuola divennero furiosi perché una semplice donna era riuscita ad ingannarli. Dopo due anni, trasferirono la dottoressa in un'altra città, lasciandomi priva dei necessari documenti legali. La salute di Rav Efrayim Shlomo era compromessa.

Quei delinquenti erano ansiosi di fare i conti con me. Mi infastidivano continuamente. Giunsero a dirmi che avrebbero permesso a mio figlio di non scrivere di Sabato se solo si fosse presentato alle lezioni in quel giorno. Mi minacciarono, dicendo che se non avessi consentito sarei andata incontro a conseguenze disastrose.

Il mio cuore stava per cedere. Seppi che qualcosa di terribile stava per succedere. Pregai ed implorai il Creatore, ma sembrava che una muraglia d'odio impedisse alle mie suppliche di essere ascoltate.

Un giorno, fui chiamata al consiglio locale. Mordecovits mi minacciò – Se suo figlio non andrà a scuola, le toglieremo il diritto di maternità. Mi disse che avrebbe mandato mio figlio ad una istituzione dove avrebbe imparato ad essere leale nei confronti della

Casa Nazionale Socialista ed espiare i miei peccati anti-rivoluzionari.

Tornata a casa irruppi in lacrime. Berele venne a consolarmi: “Mamale, mamale, cosa è successo? ” Gli dissi la verità e suggerii che andasse a scuola perché terminasse la tempesta. Il mio caro piccolino, si erse e disse: “No, mamma! No, no, no, non voglio. Cos'è la vita se non è una vita ebraica? li mio posto non è tra quella gente, quegli animali. Lascerai che mi nutrano di veleno invece che di Ghemarà e Chassidut? Perché io non sarei obbligato a santificare i cieli, come hanno fatto mio padre e mio nonno? Perché discendo dai sette figli di Hanna, se non posso esaltare il nome di D-o? No, mamma, no”.

Arrivò il nero giorno in cui sarebbe iniziata la scuola. Io andavo da una parte all'altra della casa, tentando di trovare una risposta, pregando per una soluzione. I malvagi si avvicinarono alla mia porta.

Afferrai Berele; e lo buttai a terra. Lo copersi con un lenzuolo e misi candele vicino al suo capo. Gli chiesi di non respirare ì rare finché quelli non si fossero allontanati. Mi misi, seduta vicino a lui, strappandomi i capelli, piangendo, singhiozzando, “Berele! Berele! Hanno portato via tuo nonno, tuo padre e adesso te! ”

I messaggeri di dolore aprirono la porta e rimasero scioccati. Quasi subíto se ne andarono correndo. Ma io non smisi di piangere. Dopo un po' quando ormai dovevano trovarsi lontano, sussurrai a Berele di alzarsi.

Berele non si mosse. Rimase disteso, molto pallido, gli occhi chiusi. Sollevai il lenzuolo e gridai: “Berl, Berele, alzati! ” Ma Berele non si mosse.

lo mi alzai e dissi, “Signore dell'Universo, Tu concedesti e Tu hai ripreso. Benedetto sia il Vero Giudizio. Yitgadal Veyitkadash Shemei Rabà... ”

All'imbrunire, quando le rondini stridevano annunciando il volgere dei giorno in notte, un gruppetto di ebrei tremanti attendeva nel cimitero, nei sobborghi di Mosca, il feretro di Nehama Bracha Ricova, che sarebbe dovuto giungere da un ospedale a duecento chilometri di distanza. Uno dei pochi ebrei che la conosceva, aveva lottato disperatamente per liberare il suo corpo dall'ospedale senza autopsia, e perché fosse possibile farle un funerale come di rito. In questo terribile freddo, la sua dura sorte la seguì anche nella tomba. Recitammo il Kaddish e tornammo a casa.