“E Abramo prese con se Sara sua moglie, Lot figlio di suo fratello, tutti i beni che possedevano e le persone che avevano messo insieme in Haran e partì con loro per il paese di Canaan” (Bereshìt XII).
Nella metà degli anni '60 Michel Abehsera, medico naturalista e scrittore famoso, era molto impegnato a tenere conferenze sulla dieta macrobiotica e sulla medicina naturale, per presiedere le quali, copriva distanze di 10.000 miglia.
Michel Abehsera, ebreo safardita cresciuto in Francia e discendente dagli Abuchatzira, famiglia di tzadikim, è conosciuto, oggi con il nome di Meir Abehsera. È un ebreo che ha fatto ritorno alle proprie tradizioni. Grazie a lui la dieta macrobiotica è divenuta per molti ebrei la via di accesso al ritorno. Meir, come il nostro avo Abramo, ha riportato numerose anime alla religione.
Tuttora nella metà degli anni '80, Meir presiede conferenze. Oggi, pero, il centro della sua attenzione si è spostato dall'argomento dietetico al Kiruv, cioè quella sottile arte di riportare gli ebrei all’Ebraismo. Sebbene Meir continui a dare consulti medici privatamente e rimanga, naturalmente, un medico naturista (“per me è diventato talmente naturale che non mi rendo neanche conto di esserlo” afferma) egli dedica la maggior parte dei suo tempo al Kiruv e dichiara, con tipica pronuncia francese: “il Kiruv è sempre nella mia mente, nei miei pensieri, nei miei sogni anche se non me ne occupo realmente. è come se fossi nato per questo”.
Wellsprings ha reso visita a Meir nella sua casa di Brooklyn per parlare di dieta e di Kiruv ed ha così scoperto il legame essenziale che esiste tra i due.
Quando gli si domanda il perché di tanti ebrei che tornano all'ebraismo per mezzo della dieta macrobiotica, Meir risponde “Se un ebreo non sente di far parte dell'ebraismo, vuol dire che non pensa. Una persona che si interessa di dieta macrobiotica deve seguire determinate regole. Sebbene la differenza (tra la macrobiotica e l’Ebraismo) sia come la differenza tra il giorno e la notte, cioè una diversità importantissima, la macrobiotica dà comunque all'uomo un metodo di pensare”.
Meir paragona la dieta macrobiotica al luogo più casher e pareve che vi sia e aggiunge solo adesso i capi stanno cercando di dare alla macrobiotica un'identità tanto filosofica quanto religiosa mentre precedentemente veniva considerata soltanto una dieta”.
Il termine macrobiotico deriva dal greco e significa lunga vita, nome allora dato ad una particolare disciplina nutritiva che fu progettata in Giappone allo scopo di garantire ottima salute e lunga vita. Tale disciplina riscosse un'enorme successo negli Stati Uniti tra gli anni '60 e '70. Secondo Meir, la dieta macrobiotica permette di nutrirsi in modo puro e questo purifica il pensiero.
Meir continua dicendo “Così quando qualcuno comincia ad interessarsi alla macrobiotica, comincia anche a pensare. Ma dove lo porta questo pensiero, lo porta fino a D-o?”. No, ci risponde Meir. La macrobiotica parla esclusivamente di un D-o impersonale comparabile alla forza dell'universo. “Non parla di qualcosa di personale, qualcuno che si prenda cura di te in ogni momento della tua vita con compassione e benevolenza” dice ancora Meir riferendosi al concetto ebraico di Hashem. Meir ci suggerisce che l'ebreo che pensa in modo puro non fa altro che aiutarsi a trovare la strada di casa e la macrobiotica fornisce la preparazione al viaggio.
A questo punto egli cita come esempio la sua esperienza personale: “Quando vi ero dentro, non lo ero al 100%, ma forse al 20%, poiché l'ebreo che risiedeva nella parte più profonda di me stesso, rimaneva sempre sveglio. Sapevo che sarei tornato alle mie tradizioni, ma non potevo dire né quando né come. Mi stavo preparando lentamente. Ci sono moltissime persone che non capiscono dove sono, ma incosciamente lo sanno e sembrano dire: ‘lasciatemi in pace, sono vulnerabile in questo momento e mi sto preparando al mio ritorno’. Così si rivolgono alla macrobiotica per purificare il loro corpo, la loro carne, la loro anima e poi rientrano. Dalla disciplina macrobiotica salgono a quella dell'ebraismo”.
Meir afferma che durante le sue conferenze d'interesse macrobiotico anche i non ebrei sembrano divenire ricettivi. “Capiscono esattamente di cosa si parla, che bisogna credere in D-o, che si devono osservare le Sue leggi, le sette leggi di Noè”.
Dopo aver definito la macrobiotica come un luogo consacrato al pensiero, Meir la paragona al vegetarianismo e per spiegarsi meglio chiede: “Dove sono gli intellettuali nel mondo? I vegetariani non sono intellettuali; sono purificatori perché bevono succhi di carote e fanno uso di clistere. Coloro i quali si interessano di dieta macrobiotica sono pensatori. Infatti nutrirsi di cibi salati e cotti (due principi fondamentali di tale dieta) favorisce il pensare”.
Ai tempi di Adamo, quando si cominciò a cucinare, si cominciò anche a domandarsi: “Dove sono? Qual'è il mio ruolo?... I vegetariani credono di pensare, ma in effetti riflettono solo sul modo migliore di adattarsi alla natura. Essi pronunciano dichiarazioni molto intelligenti concernenti l'unione di questa, ma, e a questo punto Meir inizia a parlare lentamente soffermandosi deliberatamente su ogni parola per enfatizzarla “non possono attraversare i muri, volare verso il Divino. Questo non possono proprio farlo... Il vegetarianismo non dà la giusta preparazione mentre grazie alla macrobiotica ti senti pronto a volare!!!”.
Chiediamo a Meir se segue egli stesso una severa dieta macrobiotica. “No”, risponde, “è vietato essere uno stretto macrobiotico - l'osservanza dello Shabbat e delle feste non lo permette - ma questo è il modo in cui costruisci la fede, lasciando fare ad Hashem quello che tu non puoi. Per questo mangi una fetta di Hallà bianca e un pezzo di pollo. Hashem ha cura di ciò che tu non puoi eseguire con una rigorosa osservanza. Inoltre, aggiunge Meir, non si può prestare più attenzione alle regole della dieta macrobiotica di quanta se ne abbia per il volere di Hashem. Si comincia con l'osservare il volere di Hashem e poi si può vedere se rimane ancora del posto per altre leggi”.
Invitato ad illustrarci come mai alcuni prodotti siano 100% casher sebbene interamente chimici con un valore nutritivo quasi insignificante, Meir spiega: «Oggi, i vegetariani affermano che puro è sinonimo di casher. Vi è in effetti un fondo di verità in tale dichiarazione. Essi dicono che ciò che mantiene sano il corpo sia casher. Eppure non si tratta di un aspetto unicamente fisico... bisogna essere tutti d'accordo sul fatto che la casherùt non è un mezzo per ottenere solo un benessere del corpo, ma soprattutto un benessere dell'anima?”.
Secondo Meir, la casherùt crea spazi puri che influenzano non solo il fisico, ma anche ìl pensiero. “Mettiamo per esempio che non vi sia alcuna divisione tra i cucchiai per prodotti caseari e quelli per carne, cioè, entrambi vengono riposti nello stesso cassetto. Si verrebbe a creare così un'enorme confusione nei tuoi pensieri. Per questa ragione ci deve essere la separazione. Come virgole e punti a capo... poiché quando qualcuno non mangia casher, finisce col confondere il santo ed il profano perfino nella stessa frase”.
Meir continua con lo spiegare quanto sia importante per una persona conoscere le leggi della casherùt anche se ritiene che non gli siano sempre adatte poiché, come nel caso di coloro che seguono una dieta macrobiotica, mangia solo parvè. “Eppure bisogna sapere che mangiare insalata non accuratamente lavata, contenente vermi o insetti, è come mangiare la coda di un maiale ... quindi meglio conoscere le leggi ... la casherùt non è esclusivamente un dato di fatto, è anche un'attitudine che ti porta all'azione la quale, a sua volta, ti riporta all'attitudine”.
Attualmente qual'è il tuo modo più effettivo di Kiruv? Dopo averci pensato su, Meir risponde: “Non sono organizzato, aspetto entrambe negativo e positivo. Negativo perché non permette di comportarti come potresti e ti porta a fare le stesse cose due volte invece di una. Positivo poiché ti dà un ritmo”. Già, ma cosa vuoi dire con il termine ritmo? “Non sei più quel mercenario che esce a parlare e nemmeno come quella persona che va al lavoro in modo estremamente organizzato. Sei esattamente come gli altri, allo stesso livello di tutti gli altri. Questo è il Kiruv”.
La persona nata per il Kiruv ha molto da dire sull'argomento. L'aspetto più importante è ciò che Meir definisce preparare un posto per le persone. Sfortunatamente molti credono che il Kiruv racchiude solo parole inutili. “Tendiamo tutti a dire: qual'è la frase che possa far ritornare tante persone all’Ebraismo ma poi la roviniamo. Non è questo il modo giusto. La via d'accesso all’Ebraismo sei Tu. Tu sei una lettera dell'alef-bet, tu sei una frase e non puoi limitarti a dire parole a doppio senso, parole dietro le quali ti nascondi”.
Cosa significa preparare un posto per le persone? Meir spiega che il Kiruv non ha niente in comune con una conferenza già preparata, “con un insieme di parole già preparate... Di solito si assiste a conferenze dove dopo un'ora tutti si annoiano e dopo un'ora e mezza tutti tornano a casa poiché in questo tipo di organizzazione non si può far altro che ascoltare tante parole inutili. Se invece, l'oratore viene a presentare un'argomento d'interesse generale il pubblico desidera sentire parlare anche per otto ore senza mai lasciare l'aula”.
“Tuttavia a meno che l'oratore non sia uno tzadik non si può organizzare per otto ore” continua Meir. “Se non sei uno tzadik ciò che offri è una casa. Quando parli le tue parole preparano la casa per le persone alle quali ti stai indirizzando. Purtroppo quest'aspetto manca nel Kiruv”. Meir si lamenta tristemente, ma la pupilla dell'occhio del Kiruv è là.
Come prepari una casa per una persona? Meir dichiara molto esplicitamente: “Devi offrire la tua casa. Non puoi costruire una casa solo nel pensiero altrimenti saresti un poeta Stai sviando. Non vuoi che nessuno venga a casa tua, così fai piccole case in te, pensando di fronte alla gente. Puoi persino diventare uno specialista in questo campo! No, devi cominciare con la tua casa, continua Meir, la tua casa è comunque aperta e quando tu pensi e parli tu vieni da lì. Vieni da qualcosa che conosci, vieni dalla realtà. Vieni da casa tua.
Desideri che vengano a casa tua e vedano le pareti. Le pareti hanno ricevuto gente, hanno ospitato gente. Le pareti parlano alla persona, egli vede la bellezza di questa tua casa dove regna la cordialità e quando parli è proprio da questa casa che provieni.
Meir va avanti: “Che cosa riporta una persona a se stesso? Questa persona vede un modello; ti vede a casa tua e nota la tua gentilezza. È il cibo ad attirare tale persona, non le parole. Al nostro livello il cibo è l'elemento fondamentale della nostra essenza, della nostra cordialità”.
Nel caso di un tzadik la situazione è diversa. Al cibo offerto sono le sue parole, le sue gesta ed è di queste che ti nutri per alimentare le tue giornate, le tue settimane».
Meir parla con disinvoltura degli tzadikim e attribuisce tale facilità alla sua origine sefardita. “Questo concetto di tzadik non è molto conosciuto dagli Ashkenazim ma a noi Sefardim la cosa non ci ha mai creato alcun problema» Meir spiega. «La prima volta che vidi il Rebbe di Lubavitch seppi immediatamente che era uno tzadik. I Sefardim non hanno alcun dubbio nel distinguere uno tzadík».
Meir ritrae il Rebbe come l'uomo impossibile e afferma: “Non so proprio in quale categoria classificarlo poiché crea problemi sia in cielo che in terra. Nessuno riesce ad andare di pari passo alla sua velocità”.
Meir ritiene che ci siano nel mondo ebraico persone che non credono al Rebbe non potendosi rassegnare ad accettare il concetto di un uomo impossibile. “Non riescono a credere all'esistenza di un uomo che non sbaglia mai, neanche una volta di tanto in tanto, un uomo che possa convivere al 100% con Hashem e che sia il pilastro del mondo. Come può quest'uomo sbagliare? Sarebbe la fine dei mondo”.
Ci sono anche alcuni non appartenenti al mondo dei religiosi che dicono “conosciamo grandi uomini poiché abbiamo visto i guru” mettendo così uno e l'altro allo stesso livello. Ma com'è possibile paragonare il possibile all'impossibile?
Secondo Meir è il tzadik che rende possibile il kiruv poiché dice: “Se lavori nel campo del kiruv e non sei con un Rebbe o un uomo del suo calibro ti trovi di fronte ad una situazione imbarazzante. Una parola di troppo e sei morto. Con la presenza del Rebbe, invece, faccio quel che voglio e penso come voglio. Questo è quello che il Rebbe definisce il kiruv. Ogni qualvolta stai per fare qualcosa pensi ‘Sono con il Rebbe’ Riesci a pensare a quanta forza la sua presenza ti possa dare? Diventi come un carro armato enorme”.
Numerosi componenti della famiglia di Meir Abehsera sono tzadikim, compreso il defunto Baba Sali, leader spirituale dell'ebraismo Sefardita. Quando chiediamo se avesse avuto molto contatto con questo parente egli risponde raccontandoci del suo primo incontro con il Rebbe di Lubavitch avvenuto mentre andava a visitare il Baba Sali. “Il Rebbe non era ancora il mio Rabbino. Ero andato da lui solo per salutarlo. Ero in partenza per Israele e ci tenevo a vedere uno tzadík. Il Rebbe mi disse che non sarei dovuto andare in Israele. Sarei dovuto restare per dedicarmi al kiruv”. Ma Meir sperando sempre di poter partire si mise in contatto con i suoi genitori pregandoli di parlare con Baba Sali “chiedetegli di liberarmi da questo vincolo. Sono rimasto bloccato qui” disse. I suoi genitori chiamarono Baba Sali e gli domandarono di fare una berachà (preghiera) perché Meir potesse partire in Israele. Baba Sali rispose che Meir doveva rimanere per aiutare il Rebbe. “Sono due contro uno” disse allora Meir ridendo.
Mentre Meir parla di tzadikim, brani di nigunim (canti) risuonano dalle altre stanze. Il telefono non smette di squillare, i bambini gridano, l'aspirapolvere è in funzione, molte persone vanno e vengono cantando, ridendo e pregando mentre appese ai muri le foto di tzadíkim sembrano sorvegliare il tutto.
Che consiglio può dare Meir agli studenti universitari di oggi? “Si devono ribellare contro se stessi, contro qualsiasi cosa che si muova intorno a loro. Sono troppo statici” risponde Meir prontamente. “Essi sembrano aver perso la loro intelligenza che li spingeva a rivoltarsi non contro Hashem bensì contro tutto ciò che vi è di stabilito e che ormai non ha più senso. Come dice il Rebbe: dov'è finita la gioventù?”.
“Non usare la propria intelligenza è doloroso” continua Meir “doloroso come... non poter trasformare in azione il messaggio della tua mente. I giovani diventano così come dei re e delle regine senza corona che gridano senza sapere perché. Ma sai, quando le incontri vedi che queste persone sono veramente magnifiche, estremamente intelligenti e percettive. Come dice il Rebbe, se queste persone non ritornano all’Ebraismo è tutta colpa nostra poiché non ci mostriamo disponibili. Non mostriamo belle facce. Ed è vero. Ci sono tante brutte facce in giro e noi non abbiamo certo la faccia giusta per mostrare una porta aperta. Penso che il vero problema sia nostro, non loro”.
Sebbene Meir affermi che il kiruv non sia una tecnica che si apprende (è un elemento innato della personalità o ce l'hai o non ce l'hai) è possibile orientarsi ascoltando attentamente le sue parole. Prima di tutto bisogna essere sicuri che le parole con cui ci si esprime preparino una casa per coloro ai quali ci si rivolge.
A questa lista Meir aggiunge: Non dare risposte. È troppo facile - dice “quando il Rebbe parla non lo fa né per spiegare qualcosa né per rispondere a qualcuno (le risposte di un Rebbe provocano fuochi nel mondo). Le sue parole sono semplicemente destinate alla nostra formazione, alla costruzione dei nostro mondo”. Ecco cosa significa kiruv dice Meir, “la tua presenza serve a formare una persona, le ali ed i passi di questa”.
L'ultimo elemento è forse il più importante ed è quello di prendere la derech arukà, la strada lunga. “Moshe Rabeinu ci fece percorrere la strada più lunga. Impiegò 40 anni a spiegarci qualcosa, a prepararci a questa cosa. Bisogna avere molta pazienza. Non devi avvicinare una persona in 40 minuti, concediti pure 40 anni”.
Se si percorre la strada più lunga occupandosi seriamente nell'aiutare qualcuno, questi “non torna più con pazzia. Quando torna lo fa con tutto il suo bagaglio culturale. Trascinato troppo in fretta non farebbe in tempo a portare con sé i suoi tesori”, spiega Meir, “percorrendo invece la strada lunga, derech arucha gli si dà la possibilità di fare una teshuvà (ritorno) completa che dura tutta la vita e di portare con sé i suoi tesori. Non si può semplicemente trascinarlo via dicendo abbandona tutto quello che hai, bisogna dargli il tempo di fare il ritorno con tutto ciò che possiede” e questo secondo Meir, eviterà un futuro richiamo tentatore dal passato.
Si, avete ragione, Meir Abehsera è un grande esperto nell'arte di riportare gli ebrei a casa per rimanervi definitivamente.
La sua casa, come quella di Abramo, è sempre aperta a tutti; una casa dove coloro che vanno e vengono osservano le pareti e notano che la casa è accogliente e mangiano il suo cibo, macrobiotico o no che sia, vera essenza della sua cordialità.
Tradotto da Sabrina Fadlun. Tratto dalla rivista Wellsprings
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