La teshuvà (pentimento e ritorno a D-o) costituisce il tema principale del libro di Giona e quello del digiuno di Kippùr (il giorno dell’espiazione). Per questa ragione la storia di Giona viene letta come haftarà nella funzione pomeridiana di Minchà.

Il libro tratta un argomento profondo e coinvolgente concernente ogni ebreo, ne sia egli consapevole o no. La teshuvà è lo strumento che è stato donato a ogni uomo per consentirgli di unirsi a D-o, o, più esattamente, di riunirsi con Lui. L’uomo infatti può solo temporaneamente e superficialmente allontanarsi dalla sorgente divina. Nella vita di ogni ebreo prima o poi arriva il momento in cui si accende la scintilla interiore che pareva spenta e la persona riscopre il desiderio di ritornare alle proprie origini.

Se, al momento in cui si verifica, questa esigenza viene soffocata dalla paura di dover cambiare la propria vita, essa passerà senza aver avuto alcun effetto sulla persona. È però fondamentale non farsi ingannare da questi sentimenti: appena si accende la scintilla bisogna cogliere l’occasione di ritrovare la propria identità ebraica e di riscoprire le proprie radici e le tradizioni tramandate da secoli con sacrificio e difficoltà. 

Se nei periodi più duri della storia, mettendo a rischio la vita, l’ebreo non ha mai desistito nell’osservanza delle mitzvòt (i precetti), a maggior ragione dovremmo farlo quando viviamo in un’era di prosperità e quando non rischiamo di essere perseguitati per il solo fatto di professare una fede piuttosto che un’altra. 

La teshuvà non riguarda solo coloro che hanno mantenuto le distanze dall’ebraismo e coloro che desiderano pentirsi delle trasgressioni commesse. Bisogna infatti essere consapevoli del fatto che la vita dell’ebreo è una costante ascesa spirituale e un avvicinamento progressivo alla divinità; un percorso in salita, fatto di piccoli gradini, ognuno dei quali rappresenta una tappa fondamentale. In questa ottica, la teshuvà rappresenta il continuo miglioramento e il progresso. 

Anche il più grande tzadìk, che non ha commesso gravi peccati da cui redimersi, fa teshuvà. Per tale ragione quello della teshuvà è un aspetto fondamentale dell’ebraismo e della vita quotidiana di ogni ebreo: essa è un potente strumento nelle mani dell’uomo, la forza che gli consente di crescere e di aderire al divino in un mondo effimero, che offre continue tentazioni materiali alle quali talvolta, per debolezza o per indifferenza, si finisce involontariamente per cedere.

 L’uomo non si rende forse neppure conto del potere della teshuvà, non sempre è consapevole che può salvare non solo il singolo ma anche la collettività, il popolo intero e tutta l’umanità. D-o accoglie in qualsiasi momento un ebreo che decide di tornare sulla retta via e di riavvicinarsi al creatore. 

Vi sono però periodi dell’anno particolarmente favorevoli. Si tratta soprattutto dei giorni compresi tra la neomenia di elùl e Hosha’anà Rabbà (ultimo giorno di Sukkòt, la festa delle capanne), passando per il giorno di Kippùr. Rosh Hashanà (il capodanno) è il giorno in cui D-o giudica ogni uomo e ne decide il destino per l’anno a venire. Il giudizio viene sigillato, dapprima a Kippùr e poi a Hosha’anà Rabbà, sulla base del comportamento, delle preghiere e della teshuvà che sicuramente porteranno ognuno a essere giudicato favorevolmente, come si legge nel siddùr (il libro di preghiere): la teshuvà, la tefillà (preghiera) e la tzedakà (carità) cancellano il decreto negativo.

È chiaro che è indispensabile giungere al momento del giudizio spiritualmente preparati e purificati. Durante il periodo che precede questi giorni carichi di significato, l’uomo interroga se stesso, la propria coscienza e fa un bilancio dell’anno che sta volgendo al termine, valutando le mete raggiunte e gli scopi spirituali a cui è riuscito ad arrivare. 

Lo shofàr (strumento rituale ricavato da un corno di ariete), che viene suonato a Rosh Hashanà e a Kippùr, è un richiamo all’esame di coscienza e un risveglio per coloro che, come li definisce Maimonide, “dormono spiritualmente”. Non si tratta solo di elencare e confessare a D-o i peccati commessi di cui ci si pente, bensì di condurre un dialogo con la propria coscienza, di dare una prova di onestà verso se stessi. 

Parlare alla propria anima e parlare a D-o sono praticamente la medesima cosa, poiché D-o è dentro ciascuno di noi, l’anima divina è parte di noi. Egli ascolta e presta attenzione alle invocazioni e alle suppliche del cuore, e come dice il versetto: è tempo che si aprano le porte della misericordia divina.