Il 22 del mese di tishrì ricorre Sheminì Atzèret, che è una ricorrenza del calendario ebraico un po’ misteriosa. Per certi aspetti è considerata parte della festa di Sukkòt, per altri è una ricorrenza a sé. La natura enigmatica di questo giorno è forse meglio espressa nel modo in cui è presentata nella Torà. Dopo aver parlato di Sukkòt, durante cui tutti i popoli, anche i non-ebrei, celebravano e portavano sacrifici al Santuario, D-o esprime una specifica richiesta al popolo ebraico: “Nell’ottavo giorno [dall’inizio di Sukkòt], sarà per voi Atzèret” (Levitico 23:36).

Il commentatore Rashì spiega che la parola “atzèret”, che lett. significa “trattenere”, esprime affetto, alla stregua di un padre che direbbe ai suoi figli che stanno per congedarsi da lui: “La vostra partenza è difficile per me; vi prego, trattenetevi presso di me ancora un giorno!”. Così, dopo che tutti gli altri popoli sono andati via, D-o chiede al popolo ebraico di trattenersi ancora per un giorno di celebrazione: Sheminì Atzèret1.

I cabalisti affrontano l’idea da un’altra angolazione. Come è nel loro stile, paragonano Sheminì Atzèret all’intimità tra marito e moglie mentre consumano il matrimonio: il banchetto festivo si è concluso e gli ospiti e i parenti sono andati via; lo sposo e la sposa – metafora mistica di D-o e il popolo ebraico – sono lasciati per la prima volta nel loro momento intimo, insieme, da soli2. I mistici, pertanto, considerano Sheminì Atzèret come il coronamento della stagione delle feste del mese di tishrì, portando al culmine il processo che la precede: Rosh Hashanà, Yom Kippùr e Sukkòt. Essi affermano che in questo giorno propizio del calendario ebraico, è possibile sperimentare l’apice della gioia e della vicinanza con D-o.

Questo rapporto non lega solo il popolo ebraico a D-o, ma ci lega anche l’un l’altro. Per meglio capire come in questo giorno arriviamo a sperimentare l’unità nel senso più profondo del termine, dobbiamo esaminare più da vicino il percorso che porta a Sheminì Atzèret, la progressione delle feste che, da Rosh Hashanà, ci porta a questa conclusione.

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Ogni anno, subito prima di Rosh Hashanà, leggiamo la parashà di Nitzavìm, nella quale Mosè si rivolge al popolo ebraico pochi giorni prima che questo entrasse nella Terra d’Israele: “Voi tutti siete presenti, oggi, davanti al Sign-re vostro D-o: i vostri capi, le vostre tribù, i vostri anziani e i vostri funzionari, e ogni uomo di Israèl; i vostri bambini, le vostre mogli e lo straniero che si trova nel tuo accampamento, dal tagliatore di legna a chi attinge l’acqua…” (Deuteronomio 29:9-10). Il Baal Shem Tov spiega che la parola “hayòm” (“oggi” o “questo giorno”) si riferisce a Rosh Hashanà, ossia al giorno in cui ognuno di noi si trova davanti al Sign-re in giudizio. Affinché nessuno pensi di essere escluso dall’espressione “voi tutti”, Mosè continua elencando tutte le classi sociali del popolo: dai leader ai bambini piccoli ai tagliatori di legna, ogni individuo riveste la stessa importanza nel mondo di D-o, e nessuno è sostituibile. Questo è un fatto saliente, specialmente di Rosh Hashanà, quando ci ritroviamo insieme, come popolo, a incoronare D-o come Re dell’universo. Come spiega il noto commentatore Alshich: “Il fatto che i leader o i Saggi siano superiori al tagliatore di legna e a colui che attinge l’acqua scaturisce solo dalla nostra prospettiva terrena, che vede una gerarchia di ruoli. Quando, però, ci troviamo nella condizione in cui ‘Voi tutti siete presenti davanti a D-o’, non esiste un posto più alto e uno più basso: ciò che qui in terra sembra ‘basso’, agli occhi di D-o non è meno elevato e meno significativo di ciò che qui sembra più ‘alto’”3. Non solo siamo tutti ugualmente importanti davanti a D-o ma, spiegò Rabbi Schneur Zalman di Liadi, dipendiamo anche tutti uno dall’altro: “Come i vari organi e le membra del corpo, ciascuno dei quali è complementare, serve e porta a compimento tutti gli altri, così riguardo al popolo ebraico il semplice ‘tagliatore di legna’ o l’umile ‘che attinge l’acqua’ dà il suo contributo a ogni suo prossimo, anche ai leader”4.

Il tema dell’unità ebraica prosegue con Yom Kippùr, quando ci troviamo come un’unica entità davanti a D-o, nel momento in cui il nostro giudizio viene sigillato. In questo momento viene rivelato il livello più alto della nostra anima, la yechidà; il termine è collegato direttamente al significato di “unità”, e indica l’unità con D-o che condividiamo con ogni ebreo.

Durante Sukkòt celebriamo ancora questa unità, in maniera però più concreta, sia fisica riunendoci sotto il tetto della sukkà – che include e abbraccia ogni singolo ebreo – sia compiendo il precetto delle “quattro specie” (il mazzo del lulàv e l’etròg), che simboleggia il fatto che, nonostante e al di là delle differenze nella conoscenza di Torà e nell’osservanza pratica, siamo tutti legati l’uno all’altro dall’identità ebraica della nostra anima, che è il fulcro del nostro rapporto con il Sign-re.

Infine, arriviamo a Sheminì Atzèret. In questo giorno, la consapevolezza dell’unità ebraica – che ha cominciato a pervaderci a Rosh Hashanà, si è intensificata di Kippùr e si è manifestata in maniera tangibile a Sukkòt – penetra nel nostro cuore al punto da diventare parte di noi, interiorizzata e totalmente integrata in ciò che noi siamo, e al punto da essere espressa in tutto quello che diciamo e in tutto quello che facciamo. All’apice della celebrazione del nostro rapporto intimo e speciale con D-o, riconosciamo anche che questo rapporto è ciò che ci cementa come popolo, il nostro comune denominatore. Così, riconosciamo anche il grande valore del contributo che ciascuno di noi dà alla visione che D-o ha del mondo. Riconosciamo che se una persona sta affrontando dei problemi (fisici, mentali, emotivi…), queste difficoltà non la limitano a livello spirituale; le sfide personali, in realtà, ci forniscono l’opportunità di relazionarci a D-o e di contribuire al mondo in una maniera in cui altri non possono. Riconosciamo che a ogni persona è assegnata una parte di mondo da far risplendere, un angolo buio in cui portare luce. Riconosciamo che ciascuno di noi è prezioso e rilevante agli occhi di D-o.

Dunque, di Sheminì Atzèret esprimiamo l’unità ebraica non solo in senso passivo (radunandoci insieme in preghiera) o simbolico (agitando il lulàv), ma anche attraverso un atto empirico concreto che racchiude tutto il nostro essere, letteralmente “da capo a piedi”: è l’atto di ballare, e nello specifico l’atto di ballare in cerchio, com’è uso nella tradizione ebraica. Ci si potrebbe chiedere a questo punto: perché ballare in cerchio? Perché muoversi in un modo in cui non ci spostiamo più avanti da dove siamo partiti?

Perché un cerchio non ha a che fare con il progredire o il realizzare qualcosa, ma riguarda solo l’armonia e l’inclusione, lo stare insieme compatti. In un cerchio non c’è gerarchia (né fisica, né intellettuale, né spirituale). Un cerchio non ha un punto più alto e uno più basso, un punto più importante e uno meno importante; abbiamo tutti doti diverse e sfide diverse, eppure condividiamo la stessa radice dell’anima, la stessa missione e lo stesso destino. In un cerchio siamo tutti equidistanti dal centro, ossia dal Creatore e Fonte di vita; D-o è ugualmente accessibile a ogni persona. In un cerchio possiamo guardare il volto di ogni persona, ossia la parte del corpo che esprime l'aspetto più profondo di sé5, e possiamo veramente legarci a essa con empatia scevra da qualsiasi atteggiamento di giudizio. In un cerchio riconosciamo che ogni individuo ha bisogno dell’altro per completare il cerchio: ognuno di noi ha un punto di forza che l’altro non possiede e viceversa. Ognuno di noi ha un ruolo da coprire; ogni persona merita l’opportunità di mettere a frutto i doni che D-o le ha elargito.

L’inclusione di ogni ebreo è la spina dorsale di una comunità ebraica fiorente, e nello spirito di unità ebraica che Sheminì Atzèret incarna, è la giusta opportunità di fare luce sull’importanza di assicurare che ogni ebreo, incluso chi è diversamente abile, si senta il benvenuto nella celebrazione delle festività. Dopo tutto, nell’esatto momento in cui una persona sente di non essere accolta nel cerchio della fratellanza, abbiamo fallito nel raggiungere lo scopo della danza in cerchio e di Sheminì Atzèret.

L’inclusione comincia dalla consapevolezza dell’altro e del fatto che ogni persona ha un valore e ha un contributo prezioso da dare; però l’inclusione non può fermarsi qui. A livello pratico, gli sforzi per far sì che ciascuno si senta incluso possono partire dai leader delle comunità e delle sinagoghe, che possono pubblicizzare che le hakafòt (i balli in cerchio di Sheminì Atzèret) sono un momento di inclusione e che chi ha particolari necessità può comunicarlo ai responsabili o al rabbino del tempio in maniera che possano pensare a tutti i dettagli del caso. Alcune barriere strutturali-architettoniche possono essere rimosse ad esempio posizionando delle rampe, rendendo accessibili gli ascensori ecc. Altri tipi di barriere, richiedono un’organizzazione che permetta di far stare la persona che ha problemi di udito in un posto da cui possa sentire meglio, facendo i dovuti aggiustamenti all’impianto di illuminazione per chi ha problemi di vista, chiamando un interprete del linguaggio dei segni, stampando i testi delle preghiere con caratteri ingranditi, facendo in modo che una persona con problemi motori possa tenere un Sèfer Torà con l’aiuto di un’altra persona robusta o che possa essere spinta sulla sedia a rotelle tenendo il Sèfer Torà, e così via.

Di Sheminì Atzèret recitiamo una preghiera speciale per la pioggia, simbolo della facoltà di passare dal potenziale all’atto; anche questo deve essere un obiettivo di Sheminì Atzèret: permettere al tema-fulcro delle feste solenni, ossia l’unità, di diventare tangibile e di manifestarsi nella pratica, impiantato saldamente nel nostro atteggiamento e nel nostro comportamento, e ciò comincia assicurandosi che ogni singolo ebreo si senta ben accolto e incluso nel momento in cui celebriamo il nostro dono più prezioso: il nostro rapporto con D-o, con la Torà, e con il popolo ebraico tutto.

Di Chava Shapiro, traduzione Deborah Cohenca Klagsbald