Viene insegnato (Niddà, fine cap.3):1” Lo si fa giurare:

Prima che un ebreo venga al mondo, gli si fa prestare un giuramento nei cieli, dicendogli:

“Sii un giusto (tzaddik), e non essere un malvagio (rashà); e persino se tutto il mondo, giudicandoti secondo i tuoi atti, ti dice che sei uno tzaddik, sii ai tuoi occhi come un rashà”.

La discesa di un’anima in un corpo ha uno scopo – compiere un compito particolare in questo mondo. Per permetterle di riuscirci, le si fa prestare il giuramento di “essere uno tzaddik e di non essere un rashà”, e contemporaneamente di considerarsi come un rashà, non come uno tzaddik.

Questo deve essere capito, poiché è insegnato nella Mishnà (Avòt, cap.22):”Non considerarti come un rashà”

Come è possibile dire che un ebreo deve prestare giuramento di considerarsi come un rashà, allorchè la mishnà stessa insegna il contrario? (L’apparente contraddizione tra i due insegnamenti verrà risolta nel capitolo 13).

Inoltre, se si considera come un rashà, verrà ferito nel suo cuore e sarà triste, e non potrà di conseguenza servire D-o in modo gioioso, con cuore lieto;

Oltre alla contraddizione precedentemente menzionata, una domanda supplementare si pone adesso. Uno dei principi essenziali del servizio di D-o è la gioia di avere il privilegio di servirLo, osservando i comandamenti positivi e astenendosi da ciò che è vietato. Come possiamo pretendere da un uomo che presti il giuramento di essere un rashà ai suoi propri occhi quando una tale considerazione, sinonimo di tristezza e malinconia, rende impossibile il servizio di D-o nella gioia?

E se il suo cuore non è affatto ferito da (questa considerazione),

in altre parole se si suggerisce, per compiere il sermone prestato, di considerarsi come un rashà e di non esserne turbato, per non ostacolare la gioia nel servizio di D-o,

può arrivare ad avere un comportamento di leggerezza, che D-o non voglia non appena il peccato non lo tormenterebbe.

Persino se la sua risoluzione di non essere turbato dal fatto di essere un rashà risulta solo da un sincero desiderio di servire D-o nella gioia, una tale risoluzione è tuttavia suscettibile di condurlo ad uno stato nel quale il peccato non sarebbe più veramente fonte di disturbo.

Tuttavia, capiremo questa questione dopo avere prima definito il vero significato dei termini: tzaddik e rashà.

Troviamo nel Talmùd3 cinque categorie: lo tzaddik che ha in sé solo del benesia materialmente che spiritualmente, egli conosce solo il bene), lo tzaddik che soffre, sia materialmente che spiritualmente: spiritualmente non ha ancora sconfitto tutto il suo male ed è anche carente materialmente, il rashà nel quale c’è un po’ di bene che ha in sé solo del bene , il rashà che soffre spiritualmente e materialmente, e l’uomo intermedio – il benonì.

Il Talmud spiega: “lo tzaddìk che conosce il bene” è lo tzaddìk completo,

Una volta che raggiunge un simile livello, le sofferenze fisiche, la cui funzione è di sbarazzare l’anima delle impurità del peccato, non sono necessarie. Di conseguenza, egli ha in sé solo del bene anche sul piano materiale.

“Lo tzaddik che conosce il male” è lo tzaddik imperfetto, lett. incompleto.

Egli conosce delle sofferenze fisiche, allo scopo di purificare la sua anima affinchè non soffra nell’altro mondo.

Secondo questa spiegazione del Talmud, lo “tzaddik che ha in sé solo del bene” e lo “tzaddik che ha in sé il male” non sono due tzaddikim dello stesso livello spirituale, di cui uno riesce a vivere bene mentre l’altro soffre. Si tratta piuttosto di due livelli di tzaddikìm. Tuttavia, per il Talmùd, il livello spirituale dello tzaddik in questione è definito con le espressioni “tzaddik completo” e “tzaddik incompleto”, mentre le espressioni “tzaddik che ha in sé solo del bene” e “tzaddik che soffre” non definiscono il suo livello spirituale, ma descrivono semplicemente la sua situazione materiale che ne consegue.

Nel Raya Mehemna4, viene spiegato che lo “tzaddik che soffre” è colui il cui male (la cattiva inclinazione) è sottomesso al bene (la buona inclinazione).

Egli è lo tzaddik in cui il male è solo residuo, e sottomesso per di più alla sua buona natura. Di conseguenza, lo “tzaddik che ha in sé solo del bene” è uno tzaddik che ha solo del bene dentro di sé, non possiede più alcun male.

Secondo lo Zohar (di cui fa parte il Raya Mehemna), le espressioni “tzaddik che ha in sé solo del bene” e “tzaddik che conosce il male” definiscono, anch’esse, il livello dello tzaddìk in questione. Lo “tzaddik che conosce il bene” è uno tzaddik che ha solo il bene, il male presente dentro di lui essendo stato trasformato in bene. Lo “tzaddik che soffre” è uno tzaddik di un livello inferiore che porta ancora dentro di sé un residuo del male.

A questo punto, è necessario capire perché vengono dati ad ognuno di questi tzaddikim dei titoli ridondanti: “tzaddik completo” e “tzaddik che ha in sé solo del bene”, “tzaddik incompleto” e “tzaddik che soffre”. Se lo “tzaddik completo” è lo “tzaddik che ha in sé solo del bene” (ossia colui in cui si trova solo del bene) e che lo “tzaddik incompleto” è lo “tzaddik che soffre” (che conserva dentro di sé un residuo del male), perché è necessario dare ad ogni tzaddik due appellativi?

La spiegazione che verrà data più avanti (al cap.10), è che ogni termine descrittivo denota un aspetto particolare del servizio divino dello tzaddik (ossia il suo amore per D-o, poiché è grazie a questo amore che riceve il nome di tzaddik). Le espressioni “tzaddik completo” e “tzaddik incompleto” denotano dei livelli diversi di questo servizio: lo “tzaddik completo” è lo tzaddik che ha raggiunto la forma più elevata di amore per D-o, ahavà betaanughim (l’amore nelle delizie). Quanto allo tzaddik “incompleto”, questi è colui il quale “l’amore nelle delizie” non è ancora completo.

Le espressioni “tzaddik che conosce il bene” e “tzaddik che soffre” riguardano un’altra differenziazione di queste due categorie di tzaddikim. L’appellativo “tzaddik che ha in sé solo del bene” denota colui che ha già totalmente trasformato il male che era in lui lasciando spazio solo al bene. Lo “tzaddik che conosce il male” è colui il quale non è riuscito in questa trasformazione assoluta e nel quale il male ancora risiede.

La spiegazione che segue dimostrerà che il male al quale viene fatto riferimento qui è tuttavia solo un male residuo che abita ancora nel cuore dello “tzaddik incompleto”. Poiché lo tzaddik non conosce il male reale che si esprime attraverso il pensiero o la parola. Né a maggior ragione, il male che si manifesta attraverso l’azione.

Nel Talmud (fine del cap.9 di Berachòt)5, (viene detto che) i tzaddikim sono “giudicati” (ossia motivati) dalla loro buona inclinazione, etc. I malvagi sono “giudicati” (ossia motivati) dalla loro cattiva inclinazione, i benonìm (intermedi) sono “giudicati” dall’una e dall’altra (la buona e la cattiva inclinazione).6

Rabba dichiarò: “Io per esempio, sono un benonì”. Abbayè gli rispose:”Maestro, non lascia vita a nessuna creatura…”

Abbayè fa il ragionamento seguente: “Se sei un benonì, coloro che sono ad un livello inferiore al tuo sono inclusi nella categoria dei malvagi, di cui i nostri saggi hanno detto: “I reshaìm sono considerati come morti, persino quando sono in vita”. Qualificandoti come benonì, non permetti a nessuno di vivere”.

Per capire quanto detto chiaramente,

Oltre alla questione che verrà affrontata, ossia che se, secondo la concezione comune, il benonì è colui i cui atti si dividono per metà in mitzvòt, in buone azioni, e per metà in trasgressioni, allora come può un saggio del calibro di Rabbà commettere l’errore di considerarsi come un benonì?

Inoltre, se il benonì si riferisce a una persona che ha per metà mitzvòt e per metà trasgressioni, in tal caso il suo il suo livello è facilmente identificabile e non c’è più bisogno di chiarire la questione.

Inoltre, per comprendere la dichiarazione di Iyov (Baba Batra cap.1)7: “Padrone del mondo! Tu hai creato degli tzaddikim, Tu hai creato dei reshaim…”,

poiché Egli non decreta (quale persone saranno) tzaddik o rashà!

Il Talmud8 spiega che D-o decreta prima della nascita di un bambino se sarà intelligente o no, forte o debole, etc. Tuttavia, D-o non dice se sarà tzaddik o rashà: questo aspetto non è predertiminato bensì lasciato al libero arbitrio dell’individuo.

Di conseguenza come bisogna capire la frase di Iyov: “Tu hai creato degli tzaddikim, Tu hai creato dei reshaim”?

È necessario anche capire la natura essenziale del livello del benonì.

La natura essenziale dello tzaddik è il bene; la natura essenziale di un rashà è il male. Qual è la natura essenziale del benonì?

Non è di certo colui i cui atti contano una metà di meriti e una metà di peccati, poiché altrimenti, come avrebbe potuto Rabba commettere l’errore di definirsi un benonì, quando sappiamo che la sua bocca non cessava mai di studiare la Torà, al punto che l’angelo della morte non riusciva ad avere la meglio su di lui?

Lo zelo di Rabba era tale che non trascurò mai un istante lo studio della Torà. Anche da un punto di vista qualitativo, il suo studio era così elevato che l’angelo della morte non riuscì a dominarlo.

Quindi come avrebbe potuto commettere l’errore di pensare che avesse una metà di peccati, che D-o non voglia?

Inoltre, in che momento un uomo potrebbe essere chiamato benonì? Poiché nel momento stesso in cui pecca, e fino a quando si pente, è considerato come un vero e proprio rashà

(e se si pente in seguito, cessando di conseguenza di essere un rashà, viene considerato come un tzaddik perfetto.)9

E persino colui che trasgredisce un divieto minore dei Saggi è chiamato rashà, come insegna il Talmud in Yevamot cap.210, e in Nidda, cap.111.

(Per di più) persino colui che non pecca lui stesso, ma ha la possibilità di prevenire il peccato del suo prossimo, e non lo fa, è chiamato rashà (Shevuot cap.612).

A maggior ragione colui che trascura un precetto positivo che potrebbe osservare, come colui che potrebbe studiare la Torà e non lo fa, al quale i nostri Saggi hanno applicato il verso: “Poiché ha disprezzato la parola di D-o (la Torà), (la sua anima) verrà recisa, etc.”

È evidente che viene qualificato come rashà, più di qualcuno che trasgredisce un divieto rabbinico.

Bisogna quindi concludere che il benonì non è colpevole neanche per il peccato di aver trascurato lo studio della Torà,

Un peccato tuttavia difficile da evitare, incluso nei peccati che si commettono quotidianamente13.

E per questa ragione Rabba commise l’errore di definirsi come un benonì.

Siccome il benonì è innocente dall’aver trascurato lo studio della Torà, Rabba potè (per errore) considerarsi come un benonì, nonostante abbia scrupolosamente osservato tutti i comandamenti nei minimi dettagli, e non abbia mai cessato di studiare.

NOTA: Riguardo a ciò che è scritto nello Zohar III p.231:”Colui i cui peccati sono poco numerosi (è chiamato un “tzaddik che conosce il male”)”,

Questo passaggio sembra indicare che persino secondo lo Zohar, lo tzaddik che conosce il male potrebbe essere semplicemente un uomo che ha commesso pochi peccati. Il benonì sarebbe quindi un uomo che ha commesso una metà di meriti e una metà di peccati.

Questa è solo la domanda di rav Hamnuna a Eliau.

Ma secondo la risposta di Eliau, la definizione dello “tzaddik che conosce il male” è la stessa che viene esposta nel Raya Mehemna, sezione Mishpatim, menzionata precedentemente ossia che lo “tzaddik che conosce il male” è colui in cui il male è solo un infimo residuo sottomesso alla sua buona natura.

E la Torà ha settanta modi di interpretazione14. Fine nota

Per quanto riguarda il noto detto, che colui che ha una metà di meriti e una metà di peccati viene chiamato un benonì, mentre colui che ha una maggioranza di meriti che prevalgono sui suoi peccati viene chiamato uno tzaddik, si tratta solo di un termine che devia dal suo uso abituale per definire ciò che riguarda la ricompensa e la punizione, poiché l’uomo viene giudicato seguendo la maggioranza dei suoi atti, ed è qualificato come tzaddik alla fine del giudizio pronunciato nei suoi confronti non appena questo giudizio gli è favorevole.

È soltanto in questo caso legale che il termine tzaddik viene applicato a colui le cui buone azioni sono maggiori rispetto alle cattive.

Ma per quanto riguarda la vera definizione delle qualità e dei livelli distinti di tzaddikim e benonim, i nostri Saggi hanno detto che gli tzaddikim “vengono giudicati” ossia motivati soltanto dalla loro buona inclinazione, così come è detto:”E il mio cuore è vuoto dentro di me”15, poiché David, l’autore di questo verso, era sprovvisto della cattiva inclinazione, avendola annientata tramite il digiuno.

David sradicò la sua cattiva inclinazione per mezzo dei digiuni. Sono possibili anche altri metodi.

Questo testo del Talmud dimostra quindi che il termine tzaddik nel suo vero senso, si applica solo a colui che si è sbarazzato della sua cattiva inclinazione.

Ma chiunque non ha raggiunto questo livello, e non si è liberato della sua cattiva inclinazione, nonostante i suoi meriti siano più numerosi che i suoi peccati, non è assolutamente del livello e del rango dello tzaddik.

In realtà non ha raggiunto neanche il livello di benonì, come è stato dimostrato in precedenza.

Per questa ragione i nostri saggi hanno detto nel Midrash16:”Il Santo Benedetto Egli sia vide che gli tzaddikim erano poco numerosi, si alzò e li piantò in ogni generazione, ossia li distribuì equamente in ogni generazione.

Così come è scritto17:”Lo tzaddik è il fondamento del mondo”

Deve esserci quindi in ogni generazione uno tzaddik che serve come fondamento del mondo.

Questa espressione (“gli tzaddikim sono poco numerosi”) è concepibile solo se il termine tzaddik denota un uomo che si è completamente disfatto della sua cattiva inclinazione. Se lo tzaddik fosse solo colui il quale le buone azioni prevalgono sulle cattive, perché i nostri saggi avrebbero detto allora che :”gli tzaddikim sono poco numerosi”, allorchè la maggior parte degli ebrei conta più buone azioni che non cattive?

Tuttavia questa questione potrà essere spiegata, per comprendere meglio i livelli di tzaddik e benonì, così come le diverse sfumature che compongono i loro ranghi,

secondo ciò ha scritto Rabbi Haim Vital nel Shaar Hakedushà (e nell’Etz haim, Porta 50 cap.2): ossia che ogni ebreo, tzaddik o rashà, possiede due anime, così come è scritto18: “E le neshamòt (le anime al plurale) che ho fatto”.

Nonostante il verso si riferisce solo ad un ebreo come individuo (come lo indica il singolare della parola ruach (spirito) nella frase precedente “Quando lo spirito (di un uomo) che emana da Me sarà sottomesso”), la forma plurale (le anime) viene impiegata poiché ogni ebreo possiede due anime.

Queste sono due nefashòt, due anime e forze vitali,

un’anima proviene dalla kelipà e la sitra achara.

La parola klipà significa letteralmente una conchiglia o una buccia. D-o creò delle forze che dissimulano la vitalità divina presente nell’insieme della creazione così come la buccia che ricopre e dissimula il frutto. Sitra achra significa “l’altro lato”, il lato della creazione che è l’antitesi della santità e della purezza (questi due termini sono generalmente sinonimi).

lei (quest’anima proveniente dalla klipa e dalla sitra achra) che è rivestita dal sangue dell’uomo, È le i che da vita al corpo, come è scritto19: “poiché la nefesh della carne (ossia l’anima che mantiene la vita fisica) è nel sangue”.

E da essa (da quest’anima) provengono tutti i tratti caratteriali cattivi, che derivano dai quattro elementi che sono in essa,

Come i quattro elementi fisici: il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra, sono il fondamento di tutte le entità fisiche, quest’anima è composta dai quattro elementi spirituali che corrispondono agli elementi fisici fondamentali. Siccome essi derivano dalla klipà e dal male, sono essi stessi malvagi e generano tutti i tratti malvagi del carattere,

ossia: la rabbia e l’orgoglio emanano dall’elemento del fuoco che si eleva verso l’alto,

L’orgoglio è uno stato nel quale un individuo si considera superiore agli altri. La rabbia è un derivato dell’orgoglio: se non fosse imbevuto di questo, non si arrabbierebbe contro chiunque sfida la sua volontà.

L’appetito per i piaceri emana dall’elemento di acqua, poiché l’acqua permette la crescita di tutti i tipi di cose che offrono il piacere,

la capacità dell’acqua di far nascere e crescere delle cose gradevoli stabilisce che l’elemento di piacere è dissimulato in essa. L’appetito per i piaceri deriva dunque dall’elemento d’acqua.

La frivolezza, lo scherzo, il vanto e le parole futili emanano dall’elemento d’aria,

In modo simile all’aria, sono sprovviste di sostanza,

e la pigrizia e la malinconia emanano dall’elemento di terra.

La terra è caratterizzata dalla pesantezza. L’uomo pigro e malinconico risente una certa pesantezza dei suoi membri.

Da quest’anima provengono anche i tratti buoni inerenti al carattere di ogni ebreo, come la compassione e la beneficienza.

Tuttavia, come potrebbero dei buoni sentimenti emanare dall’anima di klipà e del male di cui si tratta qui?

Poiché per gli ebrei, quest’anima di klipà deriva dalla klipà (chiamata) noga che comprende anche del bene, e questo è la fonte di tutti questi tratti naturali positivi.(Questa klipà) proviene dall’ esoterico “Albero della Conoscenza” (che è composto) dal bene e dal male20.

Al contrario, le anime delle nazioni del mondo emanano dalle altre kelipot impure che non contengono alcun bene, così come è scritto in Etz Haim, Porta 49, cap.3.

E tutto il bene compiuto dalle nazioni del mondo è solo per scopi personali.

Siccome le loro anime provengono dalle kelipòt sprovviste di bene, le loro buone azioni sono motivate esclusivamente da intenzioni egoistiche.

E come il Talmud21 lo spiega, riguardo al verso22:” La bontà delle nazioni è un peccato”, tutta la carità e il bene compiuti dalle nazioni sono solo per la loro propria gloria…

Quando un ebreo agisce con benevolenza, è essenzialmente motivato dal benessere del prossimo. Questo concetto viene provato dal fatto che il piacere che ha quando il suo prossimo non ha bisogno del suo aiuto è più grande della soddisfazione che ha del suo atto di bontà.

Al contrario, le altre nazioni del mondo non sono mosse dalla preoccupazione del benessere del loro prossimo, ma piuttosto da delle considerazioni egoistiche, un desiderio di gloria personale, un sentimento di soddisfazione.

Bisogna tuttavia sottolineare che esistono anche fra le nazioni del mondo, delle anime derivate dalla kelipàt noga23. Sono i “pii fra le nazioni del mondo”, degli uomini virtuosi, giusti, capaci di manifestare veramente una preoccupazione per il prossimo.

Tradotto da Shiurim beSefer HaTanya, Kehot, traduzione di Fabio Leotardi de Boyon