A Purìm si aggiunge alle preghiere un particolare brano, ‘Al Hanissìm, che celebra i miracoli di H-shèm. Anche prima della lettura della Meghillà si recita una berachà che esprime il medesimo concetto.

Eppure, nel corso dell’intera trama della Meghillà non figura neppure un miracolo; essa sembra narrare una semplice successione di eventi interessanti ed eccezionali, ma facilmente spiegabili, senza che sia necessario affermare che si tratti di miracoli o di prodigi. Tutte le sue componenti risultano chiare, sistematiche e logiche; la successione degli eventi non presenta complessità, gli elementi si uniscono armoniosamente e le svolte, per quanto significative, risultano facilmente comprensibili.

Si osservino alcuni esempi estremamente “razionali”.

Il potere di Mordechày

L’ebreo Mordechày, “che siedeva ai cancelli reali”, fin dal principio fece infiltrare “un’agente segreta” alla corte di Achashveròsh. Mordechày era membro della classe più alta del governo persiano, sia di per sé che in qualità di rappresentante del popolo ebraico; quale uomo politico di spicco, egli diede così inizio a un lungo gioco, preparando il terreno per il giorno in cui avrebbe ottenuto una posizione di grande potere.

Anche la vicenda di Bigtàn e Tèresh, che all’inizio non sembra essere determinante nel quadro dello sviluppo degli eventi, fu per Mordechày un ottimo espediente per aggraziarsi il sovrano con un atto di fedeltà; fu anche un ottimo investimento nei giusti contatti, al fine di aprirsi una bella porta a palazzo e di garantirsi un futuro di successo.

L’anello del re

Quanto al motivo per cui il re stesso conferì potere illimitato dapprima ad Hammàn e poi a Mordechày, esso è di carattere puramente politico.

Il regime persiano era autocrate e dittatoriale e il re deteneva poteri e autorità illimitati. Tuttavia, anche nei suoi momenti di maggior lucidità mentale, il sovrano non era in grado di gestire tutte le complesse questioni politiche del suo impero; pertanto si usava nominare un vice a cui si attribuiva il potere e l’autorità di firmare qualunque documento a nome del re.

Queste persone rappresentavano una seria minaccia per il trono e pertanto andavano cambiate di tanto con un pretesto quasi qualunque, non necessariamente fondato.

I sovrani dell’epoca preferivano inoltre nominare alla carica di vice degli uomini di origine straniera, privi di qualunque radice storico-politica nel paese e di sostegno da parte della società locale.

Si trattava di uomini su cui si poteva sempre contare, in quanto avrebbero fatto di tutto per il beneficio del sovrano e che, d’altro lato, non potevano usurpare il trono perché sole e prive dell’appoggio delle masse.

Quando un uomo di questo genere vinceva, era il re a guadagnarci; quando perdeva, era lui stesso l’unico a perderci.

Hammàn salì al potere proprio perché straniero, aggaghita: una nullità sociale. Prova ne è che fu impiccato facilmente e senza riscuotere l’opposizione del popolo.

Pe questo stesso motivo Mordechày ottenne a sua volta una posizione del genere: era uno straniero, un ebreo. E nessuno avrebbe pianto vedendolo sulla forca, se mai fosse successo.

Il gioco politico di Estèr

Dalla condotta di Estèr emergono la stessa costanza e chiarezza che caratterizzano l’intera vicenda della Meghillà.

Con il gioco pericolosissimo da lei intrapreso – una vera e propria scommessa sulla vita – Estèr tentò con successo di presentare Hammàn, l’uomo più influente a corte dopo il re, come un uomo troppo potente.

Hammàn, dal canto suo, aveva già commesso un duplice errore. Il primo era il desiderio di causare la morte di Mordechày, dimostratosi molto fedele al re; il secondo consistette in ciò che egli propose di offrire “all’uomo più amato dal re”.

In un paese come l’antica Persia, in cui il re era ritenuto più dio che uomo, la sola idea di proporre che un comune mortale cavalcasse il suo cavallo e ne indossasse le regali vesti era semplicemente sorprendente per la sua sfrontatezza e stoltezza.

Così facendo, Hammàn alimentò notevolmente i sospetti che il re già nutriva nei suoi confronti, segnando irrimediabilmente il proprio destino. Un vero suicidio.

L’impiccagione di Hammàn era anch’essa un fatto comprensibile e prevedibile fin dal principio, essendo egli destinato alla forca fin dal momento della sua nomina a primo ministro. Dal momento in cui il re gli aveva conferito i massimi poteri, la sua esecuzione era solo una questione di tempo, era ovvia, “naturale”...

Lo sterminio degli ebrei e la loro grazia

Quanto allo sterminio degli ebrei, non poteva che essere un gesto della massima semplicità per un re come Achashveròsh; così fu anche la loro salvezza.

Quando Hammàn si lamentò degli ebrei presso il re, quest’ultimo sapeva a malapena di chi stesse parlando. L’uccisione di qualche migliaio di sudditi gli era indifferente; ciò che importava erano le condizioni delle casse reali e finché Hammàn si impegnava a finanziare il vino per tutti i giorni del re, perché non accontentarlo?

Quando poi Hammàn venne impiccato, molto probabilmente i suoi beni furono confiscati a favore delle casse del re, cosicché questi si impossessò del denaro in ogni caso e non fu più necessario uccidere gli ebrei. Anzi, era meglio che vivessero e continuassero a pagare le tasse: ai morti non si possono infatti imporre tributi...

Nessun miracolo

La vicenda della Meghillà è punteggiata della presenza H-shèm: il digiuno, la preghiera e la fede nella salvezza, ad esempio, sono elementi molto chiari in questo senso.

Tuttavia, sembra non esservi alcuna traccia di miracoli. Il contrasto con le altre storie della Torà, colme di vicende prodigiose e soprannaturali, è molto evidente.

Miracoli e prodigi

Al fine di comprendere il miracolo di Purìm, che celebriamo da ormai quasi 2500 anni, è necessario distinguere fra due fenomeni: il miracolo (נס) e il prodigio (פלא).

Il prodigio non è un fenomeno naturale e terreno. In generale si tende a definire così anche il miracolo, ma si tratterebbe di un’imprecisione.

Miracoli e prodigi sono due concetti talvolta tangenti, ma decisamente non identici. Il prodigio è ciò che non è spiegabile in maniera logica, mentre il miracolo è un evento ricco di significato, indipendentemente dal fatto che si verifichi entro le leggi della natura o che le trascenda.

Per H-shèm, che è Onnipotente, il meccanismo del miracolo non è rilevante e pertanto non deve esserlo neppure per noi. L’importante è il fatto che il miracolo sia accaduto, non in quale maniera.

Qui si verifica un cambiamento di ottica, in quanto anche un evento svoltosi entro tutte le norme della natura può essere carico di significato, un miracolo. La benedizione di Haggomèl, ad esempio, non indica che la guarigione dalla malattia è stata necessariamente prodigiosa, ma pone l’enfasi sulla sua portata. È ciò che è carico di valenza e di significato a divenire miracoloso. La definizione di miracolo non dipende quindi dall’eccezionalità dell’evento e dalla sua improbabilità, bensì dal suo significato. Basta che il fenomeno abbia una determinata valenza per rientrare nella definzione di miracolo, senza necessariamente presentare degli aspetti prodigiosi.

Lo stesso si potrebbe dire ad esempio della nascita di un bambino.

Tre volte al giorno recitiamo nella preghiera: “Ti ringraziamo... per i Tuoi miracoli che ci accompagnano ogni giorno”. Non ogni giorno cade la manna dal cielo o si apre il mare. Di quali miracoli si tratta, quindi? Di ciò che è carico di significato per noi, anche se si verifica ogni istante; e per esso bisogna ringraziare e lodare H-shèm.

Nella preghiera mattutina figurano un gran numero di benedizioni in cui si ringrazia H-shèm per i dettagli della vita quotidiana, semplici e naturali: la vista, la facoltà di alzarsi e di camminare e così via.

Si stenta a considerarli miracoli, perché è solo quando questi “privilegi” quotidiani vengono a mancare che ci si rende conto del loro valore.

Eppure di miracoli si tratta.

Per cosa si prega?

Come detto sopra, benché il nome di H-shèm non figuri nella Meghillà , i riferimenti al divino sono presenti in certa misura, in particolare nella preghiera e nel digiuno.

Quando si desidera che certe cose accadano, è necessario pregare per l’aiuto divino. Pregare tuttavia non significa che nel quadro dell’intervento auspicato un lampo fulmini l’Hammàn di turno o l’Achashveròsh in questione si trasformi in ranocchio.

Immediatamente in seguito al digiuno e alle preghiere, Estèr indossò infatti i suoi abiti più belli e andò a sedurre il re. Da un lato, quindi, poggiò sull’aiuto di H-shèm e dall’altro tutto proseguì naturalmente, senza alcun tentativo da parte dei protagonisti di cambiare le leggi della natura. Mordechày ed Estèr pregarono proprio perché avvenisse uno di quei “miracoli di tutti i giorni”, non un prodigio.

Riguardo al seguito del miracolo di Purìm, è scritto: “Gli ebrei osservarono e si assunsero [le mitzvòt]”1, ossia ripresero a osservare ciò che si erano assunti presso il monte Sinai2.

Il risultato del miracolo fu quindi grandioso e si proiettò su un lungo periodo; pertanto non era meno rilevante di qualunque prodigio che sarebbe potuto avvenire per mano della forza Suprema.

L’importante è che avvenga un miracolo, che accada qualcosa, e non necessariamente qualcosa di fuori dalla norma.

Ulteriori miracoli

All’epoca del Primo Tempio i miracoli si verificavano in maniera soprannaturale, prodigiosa.

Durante gli anni del Secondo Tempio accadevano invece meno prodigi e più miracoli. Poiché richiesero alle persone di pregare affinché si verificassero, essi rimasero impressi nella loro coscienza e nella loro memoria ed ebbero degli effetti a lungo termine.

Il ricorso a miracoli naturali non si interruppe all’epoca di Mordechày, bensì caratterizzò tutte le epoche successive. È come se H-shèm avesse detto (e continuasse a dire): “Non voglio più mostrarvi miracoli che qualunque sordo, stolto o bambino possa riconoscerli come tali. Ora assisterete a miracoli che dovrete analizzare e approfondire, al fine di comprenderne la portata!”.

Miracoli di questo genere hanno un valore notevole.

Una nuova ottica

I miracoli che H-shèm opera nel quadro della natura, con sviluppi ovvi e chiari, sono quindi forse i “migliori”, i più efficaci.

H-shèm manifesta il Suo potere proprio nella realtà in cui agisce e con cui fa vivere e arricchisce l’intero universo. In questo senso, sono proprio la natura e le sue leggi a consentire la massima espressione della creazione divina.

Lo dimostrano in un certo senso anche gli sviluppi della Storia: vi sono eventi minori, irrilevanti e poco influenti (piccola Storia); ve ne sono altri grandiosi operati da personalità illustri, indimenticabili (grande Storia); ma esistono eventi ancor più grandiosi, tanto importanti da far dimenticare l’identità o la data in cui sono avvenuti. Chi ha inventato la ruota e quando? Quando si cominciò a usare il fuoco? Chi ha insegnato all’uomo l’arte della cucina? E quella del cucito?

Non lo sa nessuno, eppure si tratta degli eventi che hanno realmente cambiato il mondo.

In questa ottica, la natura è la creazione più grandiosa.

Tuttavia, affinché questi miracoli influiscano sull’uomo, è necessario dapprima identificarli come tali, aprire gli occhi e prestarvi attenzione; ogni mattina al risveglio, ogni sera prima di coricarsi e, se possibile, anche nel corso della giornata.

Questo cambiamento di ottica ebbe inizio a Purìm, in cui la realtà “si rovesciò”3 a favore degli ebrei. tale trasformazione conferì all’uomo una nuova facoltà di interpretare la realtà naturale e di rivelare il divino in essa racchiuso.

Tratto dal libro חיי שנה Liberamente tradotto e adattato da A. Dadon